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I Brainiac sono una delle avventure rock più affascinanti e sorprendenti degli anni ’90, e al contempo una della più sconosciute. La loro storia, durata dal 1992 al 1997, attraversa come una meteora il fertile scenario del rock indipendente statunitense.
Venuti alla luce nel momento di massimo fulgore del cosiddetto “grunge” (termine abusato e divenuto calderone salvifico per la critica che vi ha potuto gettare dentro tutto ciò che voleva), i Brainiac rifuggono da ogni facile schematismo.
La loro energia e il loro amore per il low-fi sono gli stessi di molti gruppi sorti nel medesimo periodo e nel medesimo contesto. Non sorprende quindi il fatto che siano prodotti dalla Touch and Go, che ha nella sua scuderia gente come Blonde Redhead, Shellac, Don Caballero e Silkworm.
“Hissing Prigs in Static Couture” è il primo lavoro della band per la nuova label, e risulterà a conti fatti uno dei più grandi album degli anni ’90. La line-up dal 1994 comprende Tim Taylor alla voce, Juan Monasterio al basso, John Schmersal alla chitarra e Tyler Trent alla batteria.
Il suono, orgogliosamente e testardamente elettrico, è oscuro, angosciante, acido, la voce di Taylor passa da tonalità baritonali al falsetto, nella migliore tradizione dell’indie rock. L’album – curato in fase di registrazione da Steve Albini – si apre, in maniera programmatica, con i 51” distorti, rumorosi e sporchi di “Indian Poker Pt.3” per proseguire con l’energia di “Pussyfootin”, che ricorda i Mudhoney e i Pixies.
Ma i pezzi migliori del lotto sono l’epilettica e trascinante “Vincent Come On Down”, la cupa ed emozionante “Strung”, incentrata sul basso e dove viene sperimentato uno struggente uso del feedback, e dove la voce di Taylor diventa un sussurro strozzato.
Spiazzante il mini poema musicato “The Vulgar Trade”, catartica “70 Kg Man”, con le sue accelerazioni, le sue pause, una voce cavernosa e distorsioni impazzite. Ricordi robotici nei 45” di “Indian Poker Pt. 2”, a pochi passi dall’elettronica, la perfetta canzone rock in “Nothing Ever Changes” e poi via con quel capolavoro che è “I Am a Cracked Machine”. La voce filtrata e urlante di Taylor provoca brividi incredibili, il brano sprigiona una rabbia malinconica, una frustrazione disillusa. E mette la parola fine su un lavoro sorprendente, spiazzante, urticante e vero.
Al di là dei facili schematismi e dei rockers da massa esiste un mondo non piegato al mainstream, di cui i Brainiac furono un fulgido esempio, destinato purtroppo a finire in tragedia. Nel 1997, mentre era alla guida della sua macchina (Cracked Machine?) Tim Taylor, voce e mente del gruppo, morì in un incidente. La favola dei Brainiac si fermò (giustamente) lì. Sarebbe ora che il mondo si ricordasse di loro.