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Dopo l’ironia di “Thick as a Brick” arriva il concept serio dal significato aperto. La struttura è però la stessa, e ancora una volta la critica non è generalmente benevola. Francamente abbiamo il sospetto che la pretenziosità dell’opera, unita alla pedissequa e immediata reiterazione del modello dell’anno precedente, abbia portato con sé anche qualche malevolenza aprioristica. In realtà, certi che assai di peggio sia stato prodotto in ambito progressive, possiamo evidenziare alcune caratteristiche interessanti dell’album.
Innanzitutto l’introduzione dei saxofoni, soprano e sopranino, da parte di Anderson, che riduce così gli interventi flautistici: dai più ritenuto un tradimento ritortosi a danno dello scozzese a noi pare piuttosto il tentativo apprezzabile di rinnovare il suono del gruppo; e infatti Anderson insisterà in questa direzione anche con “War Child”. Ne deriva un impasto sonoro piuttosto interessante, spesso cupo e sarcastico (come nella primissima parte), certamente differente da quello di “Thick…”: il folletto Anderson si è trasformato in gnomo… La maggiore drammaticità è evidente fin dall’inizio, dal quel tenue battito cardiaco che sbocca nel pieno strumentale dal ritmo di sabba beffardo.
Anche “A Passion Play” dimostra che il progressive dei Tull è più rock della media; i passaggi migliori vanno infatti in questa direzione: forti membrature assicurate dalla chitarra di Barre e dal basso potente di Hammond-Hammond, un organo mai ridondante e magniloquente, il sintetizzatore utilizzato con parsimonia. Invano cercherete assoli di tastiere.
I difetti riscontrabili sono sostanzialmente gli stessi di “Thick…”. L’inutile ripetizione del tema fondamentale sia in conclusione d’opera sia al termine del lato A è in questo caso aggravata dal fatto che il semi-finale, col delicato flauto che suona magicamente lontano, scandito dal basso, è meglio del gran finale, un po’ pasticciato e francamente deludente. Di qui ad affermare che il disco sia un imbarazzante e indigeribile pastone, la quintessenza della prolissità e della noia, passa tuttavia il discrimine fra buon senso e prevenzione. Tanto più che la divertente e surreale parentesi di “The Story Of The Hare Who Lost His Spectacles”, quasi un brano a sé stante, una sorta di recitativo con accompagnamento orchestrale, costituisce una positiva rottura nel tono complessivo della composizione.
Anderson si conferma ottimo interprete e, forse, siamo di fronte all’ultimo atto (o penultimo, come vedremo) del periodo d’oro del gruppo, quello più vitale e creativo.
Se possedete già “A Passion Play” siamo sicuri che nell’ascoltarlo proviate buone soddisfazioni; se invece avete in animo di procurarvelo non farete certo il peggior affare discografico della vostra vita.