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Con Palmer ufficialmente sesto uomo, la band non accenna a rallentare la produzione: nel ’77 tocca a “Songs from the Wood”, nel ’78 è la volta di “Heavy Horses”. Ambedue i dischi si caratterizzano per un folk-rock di ispirazione agreste e pastorale, piuttosto personale, e certamente preferibile al fritto misto di “Too Old…”.
Nulla di straordinario o di nuovo, per carità, ma è apprezzabile la tendenza allo snellimento degli arrangiamenti orchestrali (oltretutto più appropriati qui che non nei due lavori del ’75-’76), la ricerca di sonorità più ‘antiche’ e tradizionali, legate alle radici britanniche.
L’ormai più che decennale gruppo di Ian Anderson manifesta ancora qualche sussulto di vitalità. “Heavy Horses” è un disco poco impegnativo, rilassante, sereno, un po’ malinconico. L’originale, semplicissimo e sussurrato riff di flauto che accompagna l’inizio di “…And The Mouse Police Never Sleeps” sembra dare il tono a tutto il lavoro che si avvale, nella strumentazione, dell’adozione (già sperimentata l’anno precedente) di leggiadri strumenti, quali il mandolino (suonato da Anderson: si ascolti “Acres Wild”) e il ‘portative pipe organ’, vale a dire un piccolo organo a canne. Quest’ultimo impreziosisce fra l’altro il brano secondo noi più bello, vale a dire “One Brown Mouse”, una di quelle toccanti ballate elegiache che Anderson, con qualche aggiustamento di stile, ha sempre saputo scrivere, equilibrata e compatta, senza sbrodolamenti patetici.
Altri pezzi forti sono la lunga ‘title track’, dove Martin Barre trova un altro dei suoi fortunati e memorabili riff, “Rover”, con bel riff di flauto e il discreto intreccio di glockenspiel e organo, infine “No Lullaby”, l’episodio più tormentato, vero ‘pendant’ di “Heavy Horses” nel lato A.
In epoca di punk incalzante questa musica assume l’aspetto di un abito un po’ fuori moda ma dotato di una elegnza tutta sua, fuori dal tempo: una riserva per nostalgici. I quali, peraltro, non furono allora – come non sono adesso – così pochi. E meno male.