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Spesso considerato album raccogliticcio e di ripiego – il rimasuglio di un fallito progetto cinematografico – “War Child” si rivela in realtà una sorpresa, a dimostrazione di come i giudizi vengano talvolta espressi apoditticamente e senza un reale approfondimento dell’oggetto in esame, adagiandosi acriticamente su pregiudizi e dati esterni al fatto strettamente musicale.
Abbiamo già rilevato come questa prassi nefasta abbia iniziato a colpire i Jethro Tull almeno a partire da “Aqualung” (che aveva destato perplessità in qualcuno). Vedremo ora come, anche alla luce di quanto dicemmo nelle precedenti recensioni riguardo allo stile dela band, certe affermazioni riguardanti il presente disco non abbiano alcuna ragione di sussistere, annullandosi da sé. Procediamo con ordine.
Meno ambizioso e pretenzioso, pur nella trama ancora concept, dei precedenti “A Passion Play” e “Thick as a Brick”, “War Child” ritorna alla tradizionale divisione in brani distinti, e appare lavoro nel complesso più fresco e spontaneo. La presunta indecisione e oscillazione stilistica fra progressive e più tradizionale forma canzone deriva in realtà dal fraintendimento delle tipiche caratteristiche dei Jethro Tull, o, per meglio dire, di Ian Anderson, vero onnivoro del rock.
In ogni caso “Bungle in the Jungle”, vendutissimo singolo che l’ “Enciclopedia della musica rock” dell’editore Giunti assume come prova del ripiegamento musicale di Anderson, è sì il pezzo forse più noto dell’album, ma, pur nella sua piacevolezza, ne è anche il peggiore: prima manifestazione di una tendenza alla semplificazione, all’impoverimento e involgarimento compositivo che verificheremo, ad esempio, in “Too Old To Rock’n Roll, Too Young To Die”. Tutte le altre tracce, al contrario, sono a nostro avviso di buono per non dire ottimo livello: osiamo dire che, sotto vari aspetti, siamo di fronte al più compiuto risultato della personale fusion ‘tulliana’ (fatto salvo “Aqualung”, che fa storia a sé, e i primi album), al sospirato raggiungimento di quel progressive-folk agile ma sostanzioso, accattivante, spigliato e ben suonato che, già previsto dal DNA della band, era stato in parte messo da parte nei due concept precedenti.
Se di “A Passion Play” vengono conservati i saxofoni (ma qui c’è anche il contralto), più calibrato e mirato ne è l’utilizzo. Calibrati e ben finalizzati sono pure – e in futuro non sarà sempre così – gli inserti orchestrali arrangiati da David Palmer, in funzione accessoria mai ridondante o pesante, assai ben amalgamati e fusi con una linea strumentale principale dove la solita robustezza elettrica – lo stile di Barre è il meno progressivo che si possa immaginare – interagisce senza collisione con la più intimista chitarra acustica di Anderson, l’inedita fisarmonica di Evans, gli spunti progressivi delle tastiere. Come in “Back-door Angels”, dove al riuscito stacco di sintetizzatore segue immediatamente uno dei potenti riff rockettari di Barre, preludio ad un assolo: il tutto ripetuto due volte quasi si trattasse del paradossale ritornello di una canzone tradizionale. Si capisce allora come si sia potuto scambiare per ibrido quello che in realtà è un risultato musicale nuovo e coerente.
Segnaliamo almeno, oltre alla già citata “Back-door…”: “SeaLion”, dal grintosissimo esordio con doppio riff di flauto e chitarra elettrica, secchi cambi di ritmo e una idillica apertura di flauto; “Only Solitaire”, breve ma intenso duetto chitarra-voce; la splendida “The Third Hoorah”, grandiosa e festosa danza scozzese con tanto di cornamusa.