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E’ in un clima di disprezzo verso gli ingrati ex-compagni dei Pink Floyd, “rei” di aver voluto continuare l’avventura anche dopo il suo abbandono e di aver sfruttato il nome reso grande soprattutto da lui per farne un giocattolone commerciale, che prende forma “Amused to Death”, un concept-album in cui abbondano rumori ambientali, pessimismo sociale e frecciatine sarcastiche, più o meno velate, ai molti che non gli vanno a genio, insomma: un’opera squisitamente ‘watersiana’.
Il tema portante è l’influsso della TV sulle persone (spesso dipinte come scimmiette), il modo in cui fa di tutto uno spettacolo (la guerra per esempio, su cui insiste molto l’album), catalizza la nostra attenzione e manipola le emozioni. Si comincia con “The Ballad of Bill Hubbard”, in un’atmosfera notturna e vagamente floydiana Jeff Beck
ricama dolcemente con la sua chitarra mentre la voce, in TV, di un anziano ex soldato (Alf Razzel) racconta la dolorosa storia di quando, durante la Grande Guerra, fallì nel compito di salvare un altro soldato, William Hubbard (a cui è dedicato l’album), dovendolo lasciare a morire
‘in no men’s land’, la martoriata zona tra le due trincee nemiche.
Il canale cambia ed ecco, a far da contrasto, la voce di un ragazzino che dice di non interessarsi alla guerra, ma che gli piace quando c’è in TV, così vede se ‘i nostri’ stanno vincendo o perdendo, la musica cresce ed inizia “What God Wants, part I” impreziosita da un bel assolo di J. Beck; poi “Perfect Sense”, al cui inizio doveva esserci la voce di HAL morente da ‘2001 Odissea nello Spazio’, il cui uso è stato negato da Kubrick forse per ripicca al no ricevuto a suo tempo dai Pink Floyd circa l’utilizzo di “Atom Heart Mother” in Arancia Meccanica. Il brano, introdotto da una bella melodia di piano è in parte cantato da una voce femminile e partecipa anche Marv Albert (telecronista dell’NBA) inscenando una telecronaca sportiva che risulta invece essere la cronaca di un’azione militare.
I 3 brani che seguono riflettono su quanto sia facile fare una guerra e dell’ironia tenendosi fuori dalla portata del nemico, e su come i militari
mettano a tacere la coscienza pensando che stanno solo eseguendo degli ordini; in “Too Much Rope” invece l’attenzione torna a focalizzarsi sulla TV, sul suo modo di presentare le cose e sull’importanza che riveste il denaro per ogni cultura e paese: ecco che si delinea la
‘trinità’ della società globalizzata: TV (media), religioni e soldi (con la guerra sempre in agguato); iniziano anche le frecciatine agli ex compagni e colleghi (Mason, Gilmour, Ezrin…). La ritmata “Watching TV” è il lamento (di un amico o parente immagino) per una ragazza
morta in piazza Tiananmen, una martire diversa però dai molti altri martiri della storia: lei è morta sotto l’occhio delle telecamere, ed è dunque ‘Half superstar half victim’.
La successiva “Three Wishes” non sembra invece in sintonia con l’album: è l’immaginario incontro con Aladino il mago della lampada, al quale Waters dimentica di chiedere che ‘lei’ torni, presupposto senza
il quale gli altri 3 desideri sono destinati a non dargli soddisfazione; chi sia la lei in questione non lo so, ma per gli standard di Waters questa sembra quasi una canzone d’amore…
L’album si conclude, tra atmosfere suggestive e voci prese da programmi televisivi, con due pezzi che ironizzano sui “miracoli” della globalizzazione e su come si sia ormai così assorbiti dalla TV da poter immaginare una nostra estinzione mentre ce ne stiamo tutti incollati
allo schermo, lasciando perplessi eventuali alieni giunti sulla terra i quali non potrebbero che concludere che “questa specie si è divertita fino alla morte”.
Un’opera sicuramente sottovalutata, inutile dire che 2 anni dopo “The Division Bell” dei Pink Floyd ebbe molto più successo, ma finalmente Waters ha raccolto i giusti tributi con un tour mondiale di gran successo e spero che la gente capisca che il suo valore va oltre i triti e
ritriti ritornelli di “Another Brick in the Wall” e “Wish you Were Here”, provare “Amused to Death” per credere.