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Raggiunta ormai la celebrità internazionale, grazie soprattutto alle splendide colonne sonore scritte per i film di Emir Kusturica (la sua “Kalashnikov” continua ad essere a distanza di anni un hit di travolgente ed epilettico furore), Goran Bregovic torna alla carica con un nuovo lavoro.
E si diverte a mescolare le carte fin dal titolo, “Tales & Songs from Weddings & Funerals”, che rimanda sia alla band che da anni lo accompagna sulle scene (i “Weddings & Funerals” per l’appunto) sia alla sua ultima fatica cinematografica, “Musikk for bryllup og begravelse” di Unni Straume (e qual è la traduzione italiana se non “Musica per matrimoni e funerali?) passata all’ultima mostra di Venezia e in cui il geniaccio tzigano si presenta anche come attore.
Il lavoro continua e approfondisce la ricerca musicale sulle radici tzigane dell’autore, e parte in quarta con lo scatenato “Hop Hop Hop”, scelta onomatopeica che dà il tempo al ballo, scandisce le battute di una danza sfrenata, scalcinata e divertita, con i fiati, il contrabbasso e la batteria a ispessire la matrice folkloristica dandole un’aria da funerale jazz. Riflessiva e malinconica la seguente “Tale 1”, imperniata esclusivamente sui fiati.
In realtà Bregovic ci fa assistere a sette racconti, di cui presenta via via i vari capitoli, ora tristi e melanconici (come nella splendida fusione di voci e organo del “Tale III”), ora allegri e spensierati, come nella divertente “Maki Maki” (dove timidamente gli strumenti vengono fuori poco alla volta, guidati dalla voce che li porta in un trascinante crescendo) o nella stupefacente “Polizia molto arrabbiata”, ovvero punk alla CCCP suonato con l’orchestra, feroce anche se ironica reprimenda nei confronti della polizia italiana e del nostro purtroppo attuale desiderio di “chiudere le frontiere” a ciò che viene da fuori (ma non si chiama forse razzismo? Vabbè, questi sono altri discorsi…) e con una strofa a dir poco geniale (“Agrigento, Benevento, Aspromonte, Sacro Monte, Recanati, baraccati”).
Forse è vero che Bregovic con quest’album non si è particolarmente rinnovato, ma ha raggiunto un grado di precisione certosina in ciò che fa, capace di dosare alla perfezione anarchia e tradizione, follia e profondità. Ciò che la sua musica palesava fin dagli esordi nei primi anni ’70 con la band dei Bijelo Dugme, ovvero la ricerca della fusione del mondo occidentale con quello della cultura rom, ha raggiunto ormai il suo compimento. E se è anche vero che alcuni passaggi sanno di già sentito (il cantato di “Te Kuravle” ricorda molto la celebre “Ederlezi”) sono debolezze che si perdonano facilmente. E poi la chiusura capace in un sol colpo di rinviare a paesaggi slavi e alle danze ungheresi di Brahms, passando per il ragtime vale da solo il prezzo dell’album. Un album da non lasciarsi assolutamente sfuggire.