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I Quicksilver Messenger Service furono uno dei gruppi più importanti del movimento psichedelico californiano degli anni ’60, anche se sono sicuramente meno noti al grande pubblico rispetto ad altre storiche bands come Jefferson Airplane o Grateful Dead.
Caratterizzati dal talento compositivo del secondo chitarrista Gary Duncan e, soprattutto, dal genio chitarristico del compianto John Cipollina, i QMS realizzarono il loro capolavoro con questo disco pubblicato nel 1969, a proposito del quale l’altrimenti abusato aggettivo “leggendario” è qui d’obbligo.
L’album, registrato quasi interamente dal vivo (durante concerti tenuti nel 1968) e col gruppo momentaneamente sciolto, si apre con una lunghissima versione della celeberrima “Who do you love” di Bo Diddley, che qui diventa una suite epocale. Una memorabile cavalcata chitarristica, con uno scoppiettante avvio, la voce di Duncan in primo piano e le chitarre dello stesso Duncan e di Cipollina che dialogano in perfetta sintonia, raggiungendo rari vertici di energia ed espressività. Il brano si snoda attraverso spettacolari digressioni strumentali (in bella evidenza anche il basso di David Freiberg e la batteria di Greg Elmore) e pause ammiccanti che preludono a folgoranti riprese del tema, fino allo scintillante finale.
Ma si può tranquillamente affermare che il meglio deve ancora arrivare. “Mona”, ancora una cover da Bo Diddley, inizia con basso e batteria a scandire elegantemente il classico ritmo diddleiano, rallentato fino ad una seducente cadenza e quando la chitarra di Cipollina, col suo timbro teso e graffiante, attacca con i suoi personalissimi accordi e fraseggi, il brano decolla, con la voce di Duncan ancora in primo piano. Altra grande cavalcata, dunque, dai toni più spiccatamente lisergici, con Cipollina a creare arabeschi chitarristici di grande bellezza timbrica e melodica.
Da “Mona”, passando per l’ottimo brano strumentale di Duncan “Maiden of the Cancer Moon”, si giunge alla grandiosa “Calvary”. Il brano, composto ancora da Duncan, è un continuo crescendo, tra scale spagnoleggianti ed atmosfere “morriconiane” (elevate però qui alla massima potenza), con la tensione che sale vertiginosamente, mentre sinistre campane scandiscono un’epica marcia, maestosa ed apocalittica allo stesso tempo. Qui John Cipollina è protagonista assoluto: estrae dalla sua chitarra note lancinanti e sublimi, fino all’esplosione finale tra una raffica di accordi impazziti. Rimangono, alla fine, impressionanti detriti sonori in mezzo ad una calma irreale, ancora carica di tensione. Un brano storico, che contribuisce a spiegare perché questo disco sia stato a lungo considerato da diversi critici il miglior album rock di sempre.
Dopo la tempesta di “Calvary”, la quiete giunge con la title-track, quasi una ninna nanna di congedo, che contrasta singolarmente col furore psichedelico di questo irripetibile viaggio sonoro.