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Subito dopo l’uscita di “Velvet Underground and Nico”, secondo molti il miglior album della storia della musica rock (io mi metto tranquillamente nel novero degli appassionati sostenitori), la band capitanata da Lou Reed vive un periodo di tensioni.
L’album non ha avuto riscontri di vendita accettabili, l’originale mistura di distorsioni, feedback, ballate folk e ossessioni metropolitane paranoiche non ha attecchito in un periodo che riscontra l’esplosione del flower-power e della psichedelia californiana (fughe emotive, spazi desertici, libertà).
Senza più Warhol, disinteressatosi alle sorti della band, e senza più l’apporto vocale di Nico (che aveva segnato lo storico album d’esordio con le sue interpretazioni di “Femme Fatale” e “All Tomorrow’s Parties”) le cariche di leader sono assunte dal paranoico, narcolettico e metropolitano Lou Reed e dal raffinato genio gallese di John Cale.
L’attacco della title-track è trascinante, un rockabilly in perfetto stile anni ’50, a metà tra Little Richard e Jerry Lee Lewis, con aggiunta di inusuali distorsioni e un controcanto easy-rock. Appare da subito palese come l’esecuzione sia incentrata soprattutto sulla sezione ritmica, ossessionante e instancabile, mentre più lontane appaiono le pause di folk riflessivo.
L’intento di Reed e Cale è quello di smembrare la forma canzone classica, sezionarla e ricomporla a proprio piacimento, esperimento che riesce perfettamente nella seguente “The Gift”, dove su un muro di suono psichedelico filtrato nell’ottica metropolitana si stende la voce recitante di Cale, sorta di strumento aggiunto ai feedback, alla batteria e alle distorsioni (che mano a mano aumentano d’intensità con l’evolversi del dramma).
Incredibile come la voce baritonale di Cale, pur mantenendo sempre la stessa tonalità, riesca a rendere in maniera quasi teatrale lo svolgersi della trama, grottesca, tragica e surreale – un uomo si spedisce come pacco regalo alla propria amata, ma lei ignorando il contenuto del pacco decide di aprirlo piantandoci in mezzo un paio di forbici.Un esperimento sonoro di rara forza e di ancor più raro coraggio.
Nuovamente l’accento psichedelico fa capolino nella splendida “Lady Godiva’s Operation”, ma è una psichedelia malata, insicura e sporca, ben lontana dai riflessi solari di Jefferson Airplane, Moby Grape e Grateful Dead, colleghi della west-coast. Stavolta le voci di Cale e Reed si accavallano, si inseguono, si sovrastano a vicenda, mentre la chitarra indianeggiante di Reed sorregge una ritmica sincopata. Improvvisa pausa pacificante con “Here She Comes Now”, quasi spagnoleggiante nei crescendo, con una chitarra vellutata e un’atmosfera vagamente (ma proprio vagamente!) pop.
Ma è solo per riprendere il fiato, “I Heard Her Call My Name” è la tipica canzone “alla Reed”, epilettica, dissonante, caustica, rabbiosa e al contempo apatica, sorretta da un assolo di chitarra nevrotico e spiazzante.
E per chiudere i 17 minuti e passa di “Sister Ray”, ovvero a tutt’oggi la più ardua sfida all’uditorio e alla convenzione musicale che gruppo rock abbia tentato. Perfettamente cadenzata nella sua ouverture per organo, chitarra, basso e batteria, la canzone si sviluppa sulla voce quasi narrante di Reed, mentre chitarra e organo iniziano a scambiarsi le parti negli assoli dissonanti e il muro di suono diventa di secondo in secondo impercettibilmente sempre più compatto. La psichedelia “à la Velvet”, ovvero ipnotiche cadenze sorrette da una ritmica convulsa e ossessionante, quasi stressata, visibilmente deforme, pronta ad accelerazioni e decelerazioni improvvise, balbuziente, a tratti indecifrabile, stridente e dissonante.
Se i Pink Floyd di “Piper at the Gates of Dawn”, i Jefferson Airplane di “Surrealistic Pillow” e i Pearls Before Swine di “One Nation Underground” (tanto per citare album usciti nel 1967) rappresentano il volo pindarico dell’epoca, i Velvet Underground sono il volto nascosto della luna, la metà oscura, il riflusso paranoico prima del riflusso.
In anticipo di decenni sulla musica, tanto da non essere ancora compresi, Reed, Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker lasciano qui il loro secondo capolavoro, forse concettualmente ancora più importante del precedente, anche se musicalmente lievemente inferiore (ma proprio lievemente!!!).