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Ancora un gruppo di ragazzi che arrivano da New York. Una storia che avrete ascoltato già parecchie volte e che si ripete con questi Interpol.
La differenza rispetto ad altri casi è che loro guardano all’Inghilterra, per essere precisi ai gruppi della prima new wave, e non soltanto ai riferimenti di casa propria, che pure fanno capolino nella loro musica seguendo quella linea di chitarre ruvide e musica notturna che dai Velvet Underground passa per i Television e arriva fino ai Sonic Youth. Ma è inevitabile scomodare certi momenti scuri di Cure e, soprattutto, Joy Division ascoltando “Turn on the Bright Lights”.
Atmosfera cupa, basso possente, intonazione della voce, fanno tornare alla mente la bellezza grezza di “Unknown Pleasure”, così vicina all’inquietudine dello stupendo racconto intitolato “Stella Was a Diver and She Was Always Down”.
Eppure non si tratta soltanto di epigoni della new wave. Basta proseguire e soffermarsi sull’incedere deciso di “Obstacle 1”, sull’impulsività trascinante di “PDA” o di “Obstacle 2”, sull’enfasi che esce da queste tracce, per rendersi conto che la faccenda è decisamente più complicata.
Tra i suoni ombrosi di scuola Joy Division, appaiono una sensibilità e un’energia che ricordano gruppi americani come gli scomparsi Afghan Whigs o And You Know Us By The Trail Of The Dead. Le chitarre si fanno graffianti e lo slancio emotivo incontenibile. Un’affinità che appare chiara nel trasporto di “Roland” o della conclusiva “Leif Erikson”, ma che diventa evidente in “Say Hello to the Angels”, una partenza che ricorda l’eleganza degli Smiths di “This Charming Man”, per poi sfociare nella concitazione del ritornello.
Che gli Interpol siano un gruppo che fa sul serio, lo dimostrano infine le due ballate che segnano “Turn on the Bright Lights”. “Untitled” che apre il disco con un suono crepuscolare che affiora lento e affascinante dalle chitarre, e poi un gioiello intitolato “NYC”, racconto malinconico dedicato alla città da cui i ragazzi provengono.