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Nel 1996 i Phish pubblicano questo disco che verrà salutato come il loro capolavoro, perlomeno in studio, dalla stragrande maggioranza della critica.
I due dischi precedenti (non considerando l’antologia “Stash”) avevano mostrato il gruppo oscillare tra la tentazione di realizzare un grande album in sala (“Hoist” del 1994 era stato un notevole passo in tal senso) e la volontà di immortalare ufficialmente la leggendaria potenza della dimensione live di Anastasio & C. E di questa forza testimonia il doppio cd del 1995 “A live one”.
Non che fino a quel momento i Phish avessero sfornato brutti dischi in studio, tutt’altro; ma certe lunghissime divagazioni strumentali, che dal vivo potevano funzionare alla perfezione, in sala d’incisione spesso finivano con l’appesantire anche alcuni tra i migliori pezzi. “Billy Breathes” rappresenta finalmente un elisir distillato dell’enorme potenziale creativo della band.
Il disco si apre con “Free”, destinata a divenire un cavallo di battaglia del gruppo dal vivo. E’ un perfetto esempio di rock song, con una melodia facilmente assimilabile ed un sound corposo, in cui la fanno da padroni Trey Anastasio alla chitarra e Page McConnell al piano. Anastasio contiene il suo strumento, ricamando eleganti fraseggi che impreziosiscono il pezzo.
La bellissima “Waste” esordisce con la voce accompagnata dalla chitarra acustica (come la precedente “Character zero”), per evolversi in un crescendo caratterizzato da una melodia e da sonorità di rara bellezza. Le delizie strumentali ( pur essendo qui essenziali ed insolitamente stringate) di Anastasio e McConnell e il fascino dei “crescendo” segnano in effetti i momenti migliori dell’album.
Si procede così tra una bella sequenza di titoli: “Cars trucks buses”, strumentale stile Traffic; “Talk”, dalle atmosfere molto vicine a Nick Drake; “Train song”, ossia l’assaggio consueto di Phish “campagnoli”. “Theme from the bottom” è un pezzo più difficile, con un incedere iniziale quasi indolente che si apre improvvisamente ad un maestoso refrain.
Il capolavoro dell’ album, a parere di chi scrive, arriva con la title-track. Atmosfera onirica e dolcissima, con melodie vocali intrecciate su uno sfondo di piano e chitarra acustica, ed una musica che ricorda allo stesso tempo gli Spirit di “Aren’t you glad?” ed i Genesis di “The carpet crawlers”. L’apoteosi giunge con uno straordinario assolo di Trey Anastasio, di un lirismo commovente, in cui sembra di sentire suonare assieme Randy California, Jerry Garcia e… Robert Fripp! Anastasio si conferma qui come il chitarrista forse più ispirato in circolazione, oltre che uno dei più completi tecnicamente.
“Swept away” è un altro momento sognante, come “Steep”. La chiusura è affidata ad un’altra grande ballata, “Prince Caspian”, che chiude degnamente questo memorabile disco, interessante peraltro anche dal punto di vista tematico (il rimpianto per l’infanzia perduta ed il vagheggiamento di una nuova età felice), con dei testi più significativi rispetto al passato.