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Per mettere subito le cose in chiaro il nuovo lavoro di Ryan Adams, “Demolition” è un disco cucito insieme in poco tempo, registrato di fretta, una raccolta di demo, come fa intuire il titolo, pubblicata più che altro per sfruttare il successo arrivato forse inaspettatamente con “Gold”.
Ne soffre un po’ l’insieme del disco, troppo discontinuo, a cui manca una direzione definita e un’impostazione precisa. Resta il fatto che “Demolition” è importante perché mette in luce quello che sta accadendo al musicista che fino a un paio di anni fa è stato alla guida dei Whiskeytown.
La sensazione che si avverte da queste tracce è che Ryan Adams si stia buttando via. Non che qui manchino le canzoni da stamparsi bene in mente. Ballate che sanno di America rurale come “You Will Always Be the Same”, qualche lieve richiamo alle radici, “Hallelujah” con un bellissimo coro che profuma di gospel, la bellissima melodia di “Cry on Demand”, senza dimenticare la delicata anima soul di “Tennessee Sucks”.
Il fatto è proprio questo, come un musicista con tanto talento da scrivere canzoni toccanti come “Tennessee Sucks”, possa scivolare e scrivere brani anonimi come “Desire” oppure abbandonarsi alle banalità da rock da classifica che stanno in “She Wants to Play Hearts” e “Gimme a Sign”.
Per non dire degli arrangiamenti del tutto fuori luogo di “Jesus (Don’t Touch My Baby)”, un brano irritante e pomposo e di come troppo spesso finisca per farsi trascinare dai modelli a cui si ispira, Springsteen e John Mellecamp ad esempio, in esercizi di stile senza anima.
Invece Ryan Adams viene dalle radici del suono americano e avrebbe il talento per essere un altro Jeff Tweedy e non è detto che un giorno non ci riesca. Basterebbe aggiustare la mira, abbandonare gli ammiccamenti alle classifiche e provare a rischiare un po’.
E poi scrivere brani sentiti come “Tomorrow” oppure come
“Cry on Demand” per riuscirci. C’è da augurarsi che Ryan ce la faccia,
non c’è niente di peggio che vedere un talento sprecato.