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Quando viene alla luce questo “Something Else by the Kinks”, il gruppo capitanato da Ray Davies è ancora sfruttato dalla PYE soprattutto per i singoli – le oramai storiche “You Really Got Me”, “Tired of Waiting for You”, “Where Have All the Good Times Gone” e “Sunny Afternoon” -.
Eppure la band ha già prodotto due album del calibro di “The Kink Kontroversy” e “Face to Face”, dimostrando personalità e una capacità rara a metabolizzare ogni ispirazione musicale e farla propria. Anche per questo l’album in questione è un importante punto di svolta: segnerà infatti il passaggio dalla prima fase “da singolo” agli anni immediatamente successivi, scanditi da una lunga serie di opere rock e concept album (con “The Village Green Preservation Society” e “Arthur” assolutamente impedibili).
L’attacco di “David Watts”, con il piano e la voce che recita “Fa fa fa fa” ad anticipare l’irrompere della batteria, palesano da subito gli intenti della band. L’insieme di sarcasmo, vaudeville, atmosfere dandy e decadenti e sferzanti ritratti antiborghesi si sublima nella successiva, splendente, “Death of a Clown”. Il brano, amaro ritratto di un artista e in fin dei conti metafora della mascherata (“My Make-up is dry and it clags on my chin/I’m drowing my sorrows in whisky and gin”), è sorretto da una ritmica sincopata e trascinante e cantata con partecipata commozione da Davies, mentre un coro angelico fa da collante fra strofa e ritornello; tra l’altro la canzone “vanta” una traslazione italiana firmata dai Nomadi, che in un probabile momento di follia la rinominarono “Un figlio dei fiori non pensa al domani”.
Un ritratto carico di Pathos in “Two Sisters”, con il pianoforte e la batteria rafforzati da un quartetto d’archi, una bossanova dolce e ironica a spezzare il ritmo in “No Return”, una onomatopeica marcia militare in “Harry Rag”, il beat che diventa teatro dell’assurdo e recita scolastica in “Tin Soldier Man”, una dolce ouverture pianistica pronta a trasformarsi in rock in odore di psichedelia in “Situation Vacant”, dilatazioni strumentali e perdita di coscienza in “Lazy Old Sun”, un collage a metà tra il cabaret e la colonna sonora da film di spionaggio (con intermezzi splendidamente elegiaci) in “Funny Face”, un incredibile caleidoscopio musicale in tre minuti in “Waterloo Sunset”, quasi un riassunto della storia della band.
E poi le bonus track, tra cui rifulgono di luce propria l’atmosfera dandy mescolata alle colonne sonore dei musicals anni ’30 di “Autumn Almanac”, anticipazione vera e propria del glam rock che esploderà di lì a quattro anni, le indemoniate digressioni pianistiche con straniante uso dell’armonica di “Susannah’s Still Alive”, l’operetta inglese alla Gilbert & Sullivan che fa capolino nella dolcezza di “Wonderboy”. Di nuovo il cabaret che va a fondersi con la marcia militare e il rock in “Polly” e un’altra versione di “Lazy Old Sun” a chiudere il tutto.
Il mondo dei Kinks è un mondo decadente, affascinante, divertito e macabro allo stesso momento, ironico e pessimista. Questo “qualcos’altro” che ci regalano è un immenso capolavoro.