Share This Article
Due anni soltanto: questo il tempo intercorso dalla pubblicazione di “Blonde on Blonde”, album che ha consacrato Dylan come il massimo compositore rock, all’uscita di questo “John Wesley Harding”.
Due anni soltanto, eppure tutto appare stravolto; di mezzo c’è stato un grave incidente motociclistico, che ha portato il menestrello ad un isolamento fisico e mentale, impedendogli anche di portare a termine il suo primo testo letterario, quel “Tarantola” che furoreggerà di lì a pochi anni come simbolo di una generazione amante della metafora e dell’aforisma.
Il Dylan di “John Wesley Harding” è un Dylan cauto, schivo, che torna alla ballata acustica, sorreggendo la ritmica con il basso e la batteria. Musicalmente decisamente un passo indietro. I testi, perduta ormai l’energia rabbiosa degli esordi, sono spesso incomprensibili, metaforici e carichi di riferimenti biblici, apologhi moralisti su questo mondo che proprio non va, no, non va bene.
Dopo essere stato portavoce di una generazione in fermento, pronta a scendere in piazza per combattere la guerra e difendere i diritti civili, Dylan abbandona la contesa, e lo fa (casualmente?) proprio nel cuore caldo, quel 1968 che diventerà fin troppo presto borghese memoria dell’adolescenza e gravoso monumento al furore giovanile.
Eppure “there must be some way out of here”, come annuncia la voce sussultante di Dylan trasformato nel Joker e rivolgendosi al thief, il ladro, in fin dei conti il suo pubblico. E’ così che attacca “All Along the Watchtower”, il brano che da solo riesce a rendere questo album un semplice episodio minore della carriera del cantautore di Duluth e non una cocente delusione: due minuti e mezzo serrati, aspri, malinconici e così dolci, furbi, con quel wildcat che urla in lontananza e che immagino, col suo muoversi sinuoso e dinoccolato, nella selva appena fuori le mura sovrastate dalle torri di guardia. Una descrizione di vita e di morale di altissimo valore poetico, in un brano che ha il pregio di vantare cover sempre all’altezza dell’originale (e a volte…pensieri che fuggono su una chitarra elettrica fluida e quasi dilatabile).
Ecco, qui, in “All along the Watchtower”, è racchiuso tutto l’album, per il resto abbastanza anonimo e in fin dei conti non indispensabile (da ricordare solo la “Dear Landlord” che diventerà cavallo di battaglia di Janis Joplin).