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L’esordio omonimo dei Suicide è forse, a tutt’oggi, il più sferzante pugno allo stomaco che la storia della musica ricordi. L’elettrizzante attacco di “Ghost Rider” ne esemplifica tutta la grandezza, un rockabilly elettronico ed estenuante cantato da un Elvis Presley spettrale, voce del passato che arriva a percuotere selvaggiamente il presente cercando di aprire gli occhi su un probabile futuro. Futuro che il duo formato da Alan Vega e Martin Rev proponeva dall’inizio degli anni ’70 a New York, senza riuscire a trovare uno straccio di produzione.
Musica aliena, nevrotica e disturbata, sicuramente figlia dell’isteria metropolitana dei Velvet Underground – soprattutto quelli dei primi due album -, ispirata dal furore rock di Elvis Presley quanto anticipatrice del movimento punk (e non a caso questo capolavoro d’esordio vede la luce proprio nel cuore della rivoluzione musicale di fine anni ’70).
Ma i Suicide non suonano strumenti, affidandosi interamente all’elettronica, dai detrattori definita “la musica di plastica” – e proprio su questa definizione faranno gioco altri gruppi seminali dell’epoca come i Devo -. Chiunque sia convinto della freddezza della musica non accompagnata da chitarra/basso/batteria cerchi prima o poi – preferibilmente prima – di imbattersi in “Cheree”, dolce ninnananna sintetica, con organo in sottofondo e carezzevole irrompere di carillon, declamata con tenerezza profonda e struggente da Vega; un brano di cui è arduo non innamorarsi.
L’angoscia metropolitana di “Rocket USA” è unica, e dimostra la sua attualità proprio in Italia, se è vero che gli Afterhours l’hanno presa a modello per la loro “Milano circonvallazione esterna”, con Manuel Agnelli impegnato a riproporre fedelmente addirittura gli urletti schizofrenici di Vega. Ascoltare entrambe per credere.
I due minuti e poco più furiosi e al contempo ironici di “Johnny” rimandano nuovamente al rock’n’roll più classico, preparando il terreno al brano spartiacque, la definitiva dichiarazione d’intenti, “Frankie Teardrop”. Il brano, che si dipana lungo più di dieci minuti, è il massimo grado di sperimentazione raggiunto dal duo, capace di ricreare con una serie di battiti incessanti il ritmo frenetico della vita della fabbrica nella quale si svolge la storia di Frankie, operaio che improvvisamente uccide moglie e figli per poi suicidarsi. Il finale, stravolto da rumori sovrapposti, caos mentale e musicale, mostra i riferimenti all’opera dei Velvet Underground – in particolare, inequivocabilmente, l’incedere di “Sister Ray” – ma il canto di Vega, disilluso, immobile, pronto a irrompere in urla frenetiche per poi ricadere nel silenzio, nel singulto, epilettico, psicotico, a volte in lotta con se stesso, si eleva al di sopra di tutto. Un attacco alla società statunitense e alla trasformazione dell’uomo in macchina di grande effetto e assolutamente non conforme alle regole. Il tono di “Che” è elegiaco, imponente, eterno, e ricorda l’attitudine alla musica sacra di autori come Nico o i Tangerine Dream.
Nuovamente i ritmi industriali fanno capolino dalla martellante “I Remember”, mentre un’aria più accessibile, quasi ballabile, si riscontra nella conclusiva “Keep Your Dreams”, che pur ricordando nel suo incedere malizioso e suadente l’opera di Reed, mostra a sua volta come molti gruppi anni ’80 siano debitori di questo duo geniale e stravolto, difficilmente collocabile, incapace di ripetersi su questi livelli (anche se il secondo album è comunque di valore) e presto caduto nella dance più commerciale. “Suicide” resterà sempre e comunque uno dei monoliti più inattaccabili della storia della musica contemporanea.
La riedizione del cd propone oltre all’esordio anche un secondo cd, contenente un ottimo concerto del 25 maggio del 1978 al CBGB (storico locale newyorchese, che diede asilo a tutto il movimento underground del periodo, dai Ramones ai Sonic Youth passando per Television, Talking Heads, Patti Smith e Glenn Branca) e lo storico “23 Minutes Over Brussels”, brano unico d’avanguardia presentato come suite in un concerto nella capitale belga.