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Sette anni dopo quello che sembrava essere stato l’ultimo atto della sua esistenza, nel 1981 il Re Cremisi di Robert Fripp torna in attività. E lo fa in maniera eclatante, proponendo una musica – manco a dirlo – nuova di zecca, che vede accentuata in modo impressionante la componente ritmica.
Per certi versi, la direzione sembra essere quella indicata dai Talking Heads di “I Zimbra” e del grande album “Remain in Light”. E, guarda un po’, con quei Talking Heads suonarono Robert Fripp nel primo caso ed Adrian Belew, prossimo ad entrare nella nuova formazione dei Crimson, nel secondo.
Nuova formazione che è un’autentica bomba: c’è ancora Bill Bruford con il suo drumming imprevedibile e colorito; c’è Tony Levin, fuoriclasse del basso ed uno dei pochissimi uomini al mondo che, all’alba degli anni ottanta, sappiano suonare quell’infernale strumento chiamato stick bass; infine c’è appunto Adrian Belew, geniale chitarrista che ha già prestato il suo estro ad artisti come Zappa, Bowie e, come detto, Talking Heads.
“Elephant Talk”, brano d’apertura dell’album e destinato a diventare un classico del gruppo, è a tutti gli effetti il biglietto da visita dei nuovi Crimson. La tecnica strumentale è al limite del prodigioso, la sezione ritmica svolge un lavoro di primissimo piano e per la prima volta Fripp “tollera” la presenza di un altro chitarrista che peraltro si permette spesso e volentieri il lusso di rubargli la scena (indimenticabili i barriti della chitarra di Adrian).
“Thela Hun Ginjeet” è forse il brano che maggiormente mette in evidenza l’ eccezionale complessità ritmica e armonica della musica del rinato Re. Memorabile l’inizio del pezzo, con gli accordi scatenati di Belew e l’ ingresso del basso di Tony Levin che traccia col suo strumento eccezionali linee melodiche, fungendo allo stesso tempo acrobaticamente da cerniera, mantenendo un difficilissimo equilibrio ritmico tra le chitarre a briglia sciolta e il drumming fantasioso di Bruford. Uno dei brani tecnicamente più difficili nella storia del gruppo, senza ombra di dubbio.
E così, tra vecchi incubi (“Indiscipline”) dolci assaggi di melodia crimsoniana (“Matte Kudasai”), intrecci strumentali di inaudita complessità (“Frame by frame”, “Discipline”) il Re completa la sua nuova opera tornando a stupire e creando un’altra pietra miliare, così come tali erano stati album come “In the Court of the Crimson King”, “Larks’ Tongues in Aspic” e “Red”.
Un commento finale a parte lo merita la strumentale “The Sheltering Sky”: musica di difficile classificazione, con stick, percussioni e chitarra di Belew a creare lo sfondo di un esotico immaginario paesaggio che Robert Fripp dipinge magistralmente con chitarre trattate che suonano come mai si era sentito prima (sax elettrici ?), ed utilizzando scale orientaleggianti complesse ed ipnotiche. Fripp rivelerà in seguito, che il contratto obbligava i nuovi Crimson a realizzare altri due dischi oltre a “Discipline”. Ma né “Beat” del 1982 né “Three of a perfect pair” del 1984, pur essendo dischi più che buoni, riusciranno a toccare i livelli di questo album.