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A meno di due anni di distanza da “No More Shall We Part”, Nick Cave torna alla carica con un nuovo lavoro. La bilancia musicale non sembra essersi discostata da quella che è la direzione presa dal cantautore australiano da quando nel 1996 diede alle stampe “Murder Ballads”: ballate dolorose, dove l’angoscia rock, dark e minimale che aveva reso celebre le sue opere negli anni ’80 sfuma in crescendo per pianoforte, voce e archi.
Questo processo di ammorbidimento, continuato nell’eccellente “The Boatman’s Call” e cristallizzato in “No More Shall We Part”, è esemplificato dal primo brano di questo nuovo lavoro, lo struggente “Wonderful Life”, dove il pathos è sublimato da un crescendo lento, inesorabile, a cui Cave regala un cantato baritonale di grande spessore. Sullo stesso stampo le seguenti “He Wants You” e “Right Out of Your Hand” – quest’ultima con una chitarra in sottofondo a metà tra il country e lo spaziale -, con il pianoforte in splendida evidenza e l’elegiaca presenza dell’arrangiamento orchestrale: assolutamente nulla di nuovo sotto il sole, ma quanta classe!
Con “Bring It On” Cave sembra voler tornare a ripercorrere le strade di lavori soffusi come “Let Love In” – in particolare “Red Right Hand” -, salvo poi esplodere in un ritornello melodico e accattivante (con chitarra e violino a rincorrersi) che ricorda molto pop-rock dei primi anni ’90 e che rovina di fatto la canzone, appiattendola su un livello di banalità fino ad adesso estraneo ai cromosomi del cantautore australiano – e in questo aiutato anche dal fastidioso coro cantato da Chris Bailey.
Parlato e irruenza rock si fanno largo nella scatenante e apparentemente illogica (con i suoi spezzati e la voce in controtempo sulla musica) “Dead Man in my Bed”, nella quale i Bad Seeds sembrano tornare a epoche di rumorismi e distorsioni oramai persi nelle nubi dei ricordi, pur sempre riletti nell’ottica pop che è la nuova base stilistica della band. Un brano di grande impatto, comunque, e la dimostrazione incontrovertibile di come la lingua di Cave sappia ancora essere sferzante, quando vuole. Il finale lascia inoltre intravedere un’anarchia acidula che sembrava dimenticata.
“Still in Love” è una ballata delicata appena sporcata dal sottofondo angosciante di rumori e riverberi, ma nuovamente adagiata su pianoforte e archi, in “There Is A Town” Cave abbandona le tentazioni logorroiche alle quali ha da sempre abituato il suo pubblico e regala una lirica spoglia, essenziale, accompagnata dal violino di Warren Ellis, “Rock of Gibraltar” non aggiunge nulla di nuovo, mentre l’elegiaca “She Passed By My Window” presenta un incedere a metà tra la ballata celtica e il coro da chiesa (con organo e violino a sottolineare in maniera a tratti quasi stucchevole i passaggi del testo), “Babe, I’m on Fire” cerca di ripercorrere i fasti di brani torrenziali del passato come “The Curse of Millhaven” mettendo insieme la bellezza di 38 strofe ma mostrando, a conti fatti, la corda con un arrangiamento povero di idee e contenuti.
Resta la divertente strofa finale, che Cave sfrutta per presentare la sua band, oramai consolidata con la presenza di Blixa Bargeld (mente degli Einsturzende Neubauten) alla chitarra, Mick Harvey (con Cave dai tempi dei Birthday Party e fondatore anche dei Crime and the City Solution) a chitarra, organo basso e percussioni, Thomas Wydler e Jim Sclavunos (primo batterista dei Sonic Youth) a scambiarsi le parti tra batteria e percussioni, Martyn P. Casey al basso e Warren Ellis al violino.
Un lavoro che porta alla luce il Cave meno ispirato di tutti i tempi, al quale gioverebbe con ogni probabilità un cambio di sonorità: si ha la netta impressione infatti che il nuovo discorso portato avanti nella triade “Murder Ballads”/”The Boatman’s Call”/”No More Shall We Part” si sia esaurito e che Cave riesca qui a dimostrare solamente la sua classe, indiscutibile, ma che perde molto del suo vigore quando non è accompagnata dall’ispirazione.