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Gli Oneida sono un quartetto di New York, e questo “Each One Teach One” è il loro quarto lavoro, diviso in due cd.
Il primo cd è composto solo da due pezzi, “Sheets of Easter” e “Antibiotics”, per la durata totale di mezz’ora di musica; mezz’ora di grandissima musica. Due parole mormorate ed ecco partire “Sheets of Easter”, devastante brano garage, basato su un’unica nota suonata con un’irruenza e una foga inaudite, travolgente, con quelle voci atone e ossessive a coprire tutto. Solo due brevissime varianti (stiamo parlando di pochi secondi!) a straniare ulteriormente l’ascolto di un brano unico nel suo genere, catatonico, angosciante eppure divertito, sintesi perfetta delle angosce suburbane e dello stress metropolitano, addirittura rivisitazione in chiave postmoderna della teoria della ripetitività ciclica dei materiali, catarsi di un mondo industrializzato destinato alla saturazione.
Addirittura superiori i 16 minuti sui quali si dipana “Antibiotics”, gemma di assoluto splendore, aperta da uno snervante organo sulla cui scia si dipanano una chitarra acida, un basso percosso con furia e una batteria impazzita; estasi di epilessia musicale che continua compatta e senza freni fino a che poco alla volta gli strumenti si spengono, lasciando da solo l’organo che verso il decimo minuto si frantuma in una serie di rumori e riverberi dai quali si innalza una voce cantilenante, da filastrocca per bambini, che sembra quasi provenire da un’altra epoca. L’idea del contrasto raggiunge quindi il suo grado di perfezione: in un momento di stasi rumoristica, che mischia futurismo e avanguardia alla John Cage, il futuro si sposa con la propria memoria demodé.
Su rumori e suoni spaziali si chiude il primo cd. Un’avventura musicale difficilmente narrabile. La domanda ora è: dopo questa apocalisse sonora, cosa potrà nascondersi nel secondo cd? La risposta è la meno ovvia eppure la più semplice: sette canzoni. Ed è qui che il genio di questi quattro musicisti si dimostra in tutta la sua grandezza: se il primo cd aveva infatti mostrato il volto più ostico e magmatico della band, il secondo cd si apre sul trascinante riff hard-rock della title-track, apripista di un brano frenetico che mescola reminiscenze da rock anni ’70 a stacchi da post-punk.
Battiti metronomici in perfetto stile Suicide si legano ad acidità lisergiche e psichedeliche e a un cantato malato e straziante in “People of the North”, segnata da un synth e dalla discesa della chitarra in frenesie noise. “Number Nine” è una ballata elettronica con echi orientaleggianti e un demenziale cantato che si eleva fra i rumori industriali prima dell’irrompere epico della batteria, sovrastata ora però da echi, riverberi, pulsazioni e battiti, “Sneak into the Woods” un catartico e stralunato intermezzo in odore di new wave, “Rugaru” ripropone le ossessioni del primo cd in versione ridotta, accompagnate da un organetto in pieno stile sixties e da un cantato (?) rumorista che si presenta come strumento aggiunto mentre in sottofondo delicati e soffusi tocchi di metallofono iniziano a prendere forma e consistenza.
Con l’incedere ambiguo di “Black Chamber”, dal ritornello accattivante e mellifluo, e con la circolarità musicale di “No label”, destinata a dissolversi nella ripetitività, si chiude quest’album miracoloso e sorprendente, licenziato da un gruppo capace di metabolizzare e ricreare decenni di musica rock, dai furori degli MC5 e degli Stooges all’angoscia metropolitana di Velvet Underground e Suicide, dall’avanguardia tedesca di Can e Faust alla psichedelia di fine anni ’60, dalla new wave newyorchese di fine anni ’70 ai giorni nostri – vengono alla mente anche i lavori di Liars e Xiu Xiu -.
Un album capolavoro, sospeso, indefinibile eppure concreto. E suonato in maniera eccellente.