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In un mondo musicale che sta osservando il proliferare dello stile di vita “mod” in Inghilterra, grazie all’esordio degli Who e alle sonorità crudeli dei Kinks che stanno contagiando anche un gruppo fino ad allora portavoce esclusivamente dei buoni sentimenti e dell’aspetto rassicurante come i Beatles, l’esordio in studio degli MC5 (MC sta per Motor City) ha un effetto tellurico non indifferente.
La band, capitanata da Wayne Kramer (alla Fender Guitar, come specifica il gruppo) è sulla scena a Detroit già da un paio d’anni quando la Elektra decide di racchiudere l’irruenza dei live in una registrazione ufficiale: il risultato è a dir poco sconvolgente.
La title-track è un vera e propria dimostrazione d’intenti, garage rock sporco, ossessivo, urlato: le chitarre sferraglianti di Kramer e Fred “Sonic” Smith si inseguono in assoli sporchi, acidi, violenti, sorretti da una base ritmica cruenta e devastante (con Michael Davis al basso e Dennis Thompson alla batteria) e guidati dalla voce epilettica e sforzata di Rob Tyner, vero e proprio strumento aggiunto.
Difficile, per non dire impossibile, trovare in quegli anni un approccio musicale così violento: gli Stooges di Iggy Pop arriveranno di lì a poco, mentre le frenesie musicali di gruppi hard-rock come i Led Zeppelin impallidiscono di fronte allo scontro frontale con un brano come “Come Together”.
“Rocket Reducer No. 62 (Rama Lama Fa Fa Fa)” è un r’n’b straziato e urticante, portato all’estremo e destinato a perdersi in una baraonda di suoni e urli, “Borderline” un inno liberatorio, cacofonico e basato sul controtempo, “Motor City is Burning” un’improvvisa pausa blues, “I Want You Right Now” e “Starship” mostrano il rapporto stretto che la band aveva con il movimento rivoluzionario del White Panther Party, di cui era membro il manager del gruppo John Sinclair, e che si riproponeva di eliminare il capitalismo come base economica degli USA attraverso battaglie sociali a favore dell’integrazione razziale e grazie all’eliminazione della borghesia, sostituita dalla classe operaia portata al potere.
Sappiamo tutti come andò a finire la storia: l’utopia rivoluzionaria diventerà un ninnolo posto nella dispensa e spolverato come simbolo semplicemente della libertà giovanile. E’ di un anno fa la notizia che una nota ditta di jeans riesumerà il nome e il marchio della band per una nuova linea di pantaloni: l’utopia ha veramente perso, il capitalismo ha vinto. Quantomeno resta l’irruenza di questa band miracolosa, catturata nella registrazione, e ormai immortale.