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Dietro il progetto musicale dei P.I.L. c’è la mente di John Lydon, meglio conosciuto come Johnny Rotten, istrionico cantante dei Sex Pistols: ma chiunque si aspetti di ascoltare il semplice punk che la band prodotta da Malcolm McLaren aveva venduto un po’ ovunque un paio di anni prima rimarrà deluso e scottato da questo “Metal Box”.
Il nome dell’album deriva dalla sua distribuzione, un cd (all’epoca dell’uscita tre 45 giri) confezionato in una scatola di metallo, con il nome della band come marchio di fabbrica sovrainciso sull’involucro. In seguito l’album verrà ristampato nel formato standard e distribuito con il titolo “Second Edition”.
Dicevamo in precedenza di come Lydon prenda le distanze dal passato con i Sex Pistols: al posto degli slogan urlati un cantato straniato e disperso, quasi alla ricerca della sua dimensione, apatico, snervato, che recita in maniera quasi cantilenante le sue verità su un tappeto sonoro che nulla ha dell’irruenza e dello sferragliare di chitarra delle “pistole del sesso”.
La chitarra di Keith Levene (con un passato nei Clash di Joe Strummer e Mick Jones) e le tastiere di Jeannette Lee tracciano forme quasi sussurrate, con echi d’oriente e reminiscenze da musica minimale, lasciando alla sezione ritmica il compito di condurre in porto i pezzi. E se la batteria di Dave Crowe si mette in splendida evidenza, il basso di Jah Wobble trova il modo di risaltare su tutto, prendendo di fatto le redini dell’operazione, con una classe e una genialità rare.
La psichedelia malata e ondivaga che segna brani come “Memories” si accompagna all’ossessività e alla paranoia di pezzi come “Albatross” che funge da apertura e trascina l’ascoltatore in più di dieci minuti stressati, sussurrati ma mai rassicuranti, indefiniti. In “Swan Lake” l’acida chitarra di Levene accenna, nel delirio mentale del pezzo, reminiscenze classiche (come si può intuire dal titolo, la ripresa è dal “Lago dei cigni” di Tchajkovskij), mentre il cantato di Lydon si fa straziante. I brani si susseguono, a volte mostrando un interesse per la melodia filtrata dall’avanguardia (come in “Poptones” ) altre volte, come in “Carrering” e “Graveyard” mostrando il volto più dark della band, attraverso un’atmosfera ovattata, opprimente, tenebrosa e catacombale.
“The Suit” è recitata in maniera furba e ambigua, “Bad Baby” e la strumentale “Socialist”, quest’ultima dall’aspetto robotico e ossessivo, mostrano il volto sperimentale della band, così come la rumoristica “Chant” che si spegne nell’enfasi orchestrale delle tastiere di Lee che segnano, accompagnate dal basso di Wobble, la conclusiva “Radio 4”, pausa estatica e al contempo destabilizzante. Ennesima esclamazione di stupore di un album fascinoso, difficile da collocare, sorprendente. Un viaggio surreale.