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Per tutti coloro che hanno sempre avuto un occhio di riguardo per la scena underground italiana, fin dagli anni ’80, il nome di Stefano Giaccone non solo non è una novità, ma rappresenta sotto molti aspetti una vera e propria garanzia.
Basterebbe a suo favore già solo l’aver fondato e aver traghettato per dieci anni in giro per l’Italia il più importante gruppo sotterraneo italiano, i torinesi Franti. Ma Giaccone ha dalla sua anche un purtroppo misconosciuto lavoro solista, “Le stesse cose ritornano”, pubblicato sotto il nome di Tony Buddenbrook, di assoluto valore.
Ed eccolo ora ritornare con questo nuovo lavoro. Il tema di base di “Tutto quello che vediamo è qualcos’altro” è la memoria, il passato, come evoca in maniera straordinaria l’intro, che in pochissimi istanti mette insieme il degrado delle città gallesi che hanno patito la chiusura delle miniere, il riposo del guerriero di un ex campione di rugby, l’emigrazione dei dissidenti italiani per sfuggire alla dittatura fascista di Mussolini, e il ricordo di chi all’estero non è mai riuscito ad arrivare, come Antonio Gramsci.
“E’ una storia vecchia” conclude Giaccone. Ma tutto l’album sono “storie vecchie”, come la ballata acustica dedicata a Victor Jara, poeta cileno morto fra le torture della polizia di Pinochet. Batteria sincopata in “Punto di fine”, a mezza strada tra Guccini e il rock, pausa ieratica e pianistica in “Scrivimi una lettera”, pronta a deflagrare nel finale in un rumorismo ovattato e angosciante, storia di rabbia e di indignazione quella che viene raccontata “A mio figlio”.
L’idea di memoria viene amplificata dalla riproposizione di “Radici” di Francesco Guccini, riletta in una chiave fortemente intimista, e dalla rilettura di due autori fondamentali della letteratura del novecento: Jack Kerouac e Dylan Thomas. Il primo, padre della beat generation, è alla base di “Un altro giro”, mentre “Questo pane che spezzo” è ispirato ad un poema del poeta gallese, punto di passaggio del maledettesmo decadente di fine ottocento e le nuove avanguardie letterarie della seconda metà del novecento.
Nell’album Giaccone si attornia di amici e compagni, che lo accompagnano nel suo percorso musicale: grande spazio ha Dylan Fowler, impegnato alle chitarre, al coro, al clarinetto e alle percussioni, ma impossibile non citare l’impegno polistrumentista di Clive Painter in “Così che va” e, logicamente, la voce di Lalli (altro leader dei Franti) che regala emozioni indescrivibili in “Fratello seduto oltre i cancelli”.
Tra le liriche, tutte di grandissimo spessore poetico, spicca a mio parere “Canzone urgente” dove Giaccone afferma di cantare la “pace portata a Baghdad”: quella pace che in realtà non è mai arrivata (l’album è uscito ben prima dell’attacco statunitense contro il paese mediorientale) è la dimostrazione che si può, si deve ancora guardare avanti. Proprio perché tutto quello che abbiamo davanti agli occhi può essere qualcosa di diverso, qualcos’altro.
Stefano Giaccone è un artista di grande spessore, e il suo è il migliore album italiano uscito dall’inizio del 2003.