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Una volta John Lennon disse: “Avantgarde is French for shit”. Uhm. Vero, penso io: quante volte tentano di spacciare schifezze indicibili per arte? Poi, però, ti avvicini al digipack giallo che contiene questo disco, inserisci il CD nel lettore, e ti accorgi che John Lennon era sì un genio, ma non per questo era il depositario assoluto delle verità.
Avanguardia, per i Bartòk, diventa un termine di comodo per descrivere sonorità che riassumono in sé prog, noise, pop e musica colta del ‘900 (il loro stesso nome è più che un omaggio): come tutto questo conviva nei 37 minuti di questo “Few lazy words”, è una domanda che non smette di girarmi in testa, e la bellezza straniante della proposta musicale dei Bartòk non smette di meravigliarmi ogni volta.
Il quintetto dà l’impressione di avere molti meno vincoli compositivi rispetto alla maggioranza dei gruppi attuali: una formazione atipica (voce, basso, violoncello, pianoforte e batteria), libera di spaziare tra mille riferimenti, che riesce a creare qualcosa di unico (ma come? Un disco rock quasi senza chitarre? Ebbene sì, e vi dirò che non se ne sente la mancanza) ed estremamente personale.
“Few lazy words” inizia alla grande con lo strumentale “In cold blood”, scontro frontale tra suggestioni prog e Satie: una partenza ossessiva, il quietarsi dolce del pianoforte e del violoncello, l’esplosione finale, il crescendo inarrestabile. “Devil’s hands” è una discesa agli inferi, parole strascicate e un’atmosfera talmente scura da sembrare sfuggita a qualche sogno agitato di un Tricky d’annata.
Proprio quando il disco sembra assestarsi su sonorità scure e decadenti, ecco che arrivano momenti in cui il suono si distende in melodie quasi pop (ecco il vero e tangibile passo in avanti rispetto al debutto “The finest way to offend you”), dove la tensione resta, ma l’ascolto diventa più semplice: è il caso di “Traffic jam”, della fluida “Walking my blues away” (l’unico brano dove compare una chitarra, quella di Giulio Favero degli One Dimensional Man) e della movimentata “Double spoiling”.
Di gran fascino sono i momenti in cui sono il pianoforte e il violoncello a guidare le canzoni: così come “Late fragment” è amore e purezza, così “The girl I used to know” è la fine, il rimpianto, l’aver detto troppo. Le bizzarrie da colonna sonora di “Broken lines” portano diritte ai saliscendi violenti della travolgente “Sure” e alla title-track finale, che sembra adagiarsi su un pop disturbato dai fantasmi di Lou Reed e dei Sonic Youth, fino a quando l’ossessività prog del pianoforte non spazza tutto via, come un vortice.
Già fin d’ora uno dei miei dischi del 2003, questo “Few lazy words”. Ogni tanto anche John Lennon sbagliava.