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E’ la voce di Ronnie Jones a introdurre il nuovo e atteso album dei Giardini di Mirò, “Punk… not diet!”. Poi arrivano gli arpeggi delle chitarre elettriche, le loro ammalianti trame circolari, poi la voce di Alessandro Raina e insieme disegnano un brano magicamente malinconico come “The swimming seasons”.
Qui e nel brano successivo, l’altrettanto intensa “Given ground (oops… revolution on your pins)”, si comprende come gli orizzonti dei Giardini di Mirò si siano ampliati, e non solo per l’uso della voce, ma per il tentativo di avvicinarsi alla scrittura di vere e proprie canzoni.
Brani sofferti, lenti e ipnotici, che stanno tra Mogwai e June of ’44, chitarre che intrecciano trame preziose e poi esplodono. Ma non solo. In fondo anche quando riprendono i suoni che ce li hanno fatti amare come nello strumentale “Connect the machine to the lips tower *be proud of your cake*”, sembrano riuscire ad andare oltre, aggiungendo qualche tocco di elettronica e un’apertura strumentale mozzafiato.
Da lì in poi il disco cresce ancora di intensità, giocando di più con l’elettronica e con le melodie. L’introspezione di “Once again a fond farewell” si distende lenta con toni scuri, “The comforting of a transparent life” è un passo più in là verso la forma canzone, e a metà si lascia invadere dal silenzio, per poi lasciare affiorare fiati, tastiere e archi in un finale che mette i brividi. E’ uno degli apici del disco, così come la successiva “When you were a postcard”, un vero incanto dove l’armonia lieve e freschissima della parte iniziale si tramuta in una ammaliante coda strumentale.
Poi una ballata profonda degna dei migliori Low intitolata “Last act in Baires”, impreziosita dalle voci di Kaye e Christy Brewster, una melodia nuda e intensa. E infine un breve frammento strumentale per piano e archi sigilla un lavoro intenso e ispirato.