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Anche la musica italiana può fregiarsi di avere il suo “Velvet Underground and Nico”, ovvero l’album che, in piena esplosione pop-art, coniuga l’arte uditiva con quella visiva. Se Andy Warhol nella New York underground del 1965 porta alla ribalta Lou Reed e compagnia facendoli esibire nella sua factory durante la proiezioni dei suoi film muti e mescolando la musica al teatro d’avanguardia e ai giochi di luce, Mario Schifano mette su questo ensemble di musicisti, e costruisce un’opera che nella nostra patria non ha precedenti.
L’album si apre con i diciassette folli minuti di “Le ultime parole di brandimante”, nei quali si mischiano improvvisazione, evocazioni medievali (grazie ad un delicato arpeggio di chitarra), acida e conturbante psichedelia, rumorismi, voci angeliche, ectoplasmi blues, citazioni medianiche di jingle televisivi. Un’orgia musicale accattivante, libera e profondamente anarchica, dalla quale si evince l’ascolto della scena psichedelica inglese, dell’avanguardia di John Cage e delle sue derivazioni, e dei madrigali; una versione postmoderna dei poemi medievali.
“Molto alto” è uno straordinario brano psichedelico, dominato da una sezione ritmica ossessiva e straniante e da una chitarra straziata e modulata: nella parte centrale la ritmica vive una stasi, e la chitarra prende le redini della cavalcata, fungendo intelligentemente da collante. In “Susan Song” appare esplicito l’ascolto delle delicate ballate dei Velvet Underground, alla struttura delle quali viene aggiunto un flauto di pan: il ritornello è sicuramente il punto meno originale dell’intero lavoro, ma la canzone non demerita assolutamente. Una voce sguaiata, sgraziata e tesa accompagna l’incedere rock di “E dopo”, trascinante e interamente giocato sulle aritmie e la mancanza di logica musicale, come dimostra l’irruzione improvvisa di una chitarra acida e distorta.
La pura improvvisazione è alla base di “Intervallo”, canzone di passaggio, dove ogni strumento è libero di cercare la propria dimensione, e dove le voci biascicano parole incomprensibili inseguendosi tra di loro. Un divertissement sincopato e trascinante, folle affermazione di eclettismo e frenesia anarchica. “Molto lontano” chiude l’album riallacciandosi idealmente a “Molto alto” e dimostrando l’etica di fondo di questo lavoro, diviso in due tronconi: da una parte la dimostrazione d’intenti di “brandimante”, brano a se stante, mastodontico e ricco di idee, dall’altra i cinque pezzi rimanenti, che uniti insieme formano una suite basata, al contrario della precedente, sui ruoli e sugli strumenti. Una sorta di passaggio davanti ad uno specchio, che basterebbe da solo ad inquadrare questo lavoro come uno dei principali esempi di teoria rock tentati in Italia.
Se non bastasse questo, mettetevi a ragionare che molta di quella musica che vi verrà in mente ascoltando “Dedicato a” è venuta alla luce dopo la registrazione di questo lavoro. Citando Le stelle di Mario Schifano? Chissà…