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Copertina: un uomo e una donna si stringono in un tenero abbraccio. Retro copertina: una donna dà il biberon al figlio. Tutto normale, se non fosse che ciascuno indossa uno scafandro da palombaro nel disegno del graffitista Banksy.
Tenerezza e claustrofobia, gesti antichi e nuove incomunicabilità sembrano scaturire da questa rappresentazione non certo ottimista dell’uomo d’inizio terzo millennio. L’atteso ritorno dei Blur nell’agone musicale si materializza così in un biglietto da visita dolceamaro, aggiungendosi alla separazione (momentanea?) del chitarrista Graham Coxon dagli altri tre.
Il bassone avvolgente ed arcano di Alex James offre il benvenuto insieme alla stiracchiata batteria di Dave Rowntree: l’”Ambulance” parte definitivamente quando arriva l’autista, al secolo Damon Albarn. Il ritmo è indolente, l’atmosfera appiccicaticcia e abrasiva, la voce di Damon è profonda come un canyon. La prima frase comunicherebbe certezze, “I ain’t got nothing to be scared of…’cause i love you”, se non stridesse con il contesto musicalmente cupo e ripetitivo, stemperato nel finale in un richiamo a melodie esotiche, evidente rimando al decisivo viaggio in Mali del cantante.
La Regina Africa torna ancora più prepotentemente nella successiva “Out of time”, primo singolo del disco e canzone straordinaria, registrata in Marocco con un’orchestra locale, colma di suoni sfuggenti e lontani e nello stesso tempo classica e lineare nella sua memorabile struttura di ballata: senza dubbio uno dei pezzi più belli di tutto il repertorio Blur. “Crazy beat” è una caricatura rock e la produzione ipertrofica e fumettistica di Fatboy Slim (impegnato anche in “Gene by gene”) non fa che accentuare la parte demenziale del pezzo. “Good song” è più di una “buona canzone”: si differenzia dal resto dell’album per la sua struttura più classicamente bluriana e in certi momenti il falsetto di Damon ricorda Bono Vox. L’indolenza ritorna con “On the way to the club”, insieme ad una certa electro dance che si staglia spesso sull’intero lavoro.
“Brothers and sisters” è l’anello debole, un soul scontato e noioso che non fa onore all’eclettismo del gruppo. Subito dopo però “Caravan” riporta in carreggiata la qualità dell’album, tornando ad evocare zone sub-sahariane, geografiche e del cuore: è una canzone arida, desertica, lenta, si crogiola in un’assenza spazio-temporale che lascia “l’altro mondo” deliberatamente fuori dalla porta, sprangandola con note infantili liberate dalla spensierata melodica a bocca di Damon. “We’ve got a file on you” è cortissima, un puzzle delirante di punk, Morricone e Arabia, un ponte a schiena d’asino tra la rarefazione di “Caravan” e l’atmosfera quasi festaiola di “Moroccan peoples…”, a sua volta preludio di una meravigliosa “Sweet song”, poche note di piano, la voce quasi spezzata di Albarn, canzone d’amore, canzone dell’amore, canzone sulla fragilità apparente dei sentimenti: davvero toccante ed emozionante.
Il fantasma dei dEUS fa capolino in “Jets”, stridente e ripetitiva fino ad un’inaspettata chiusura free jazz, col sax di Mike Smith che disegna parabole degne dei Soft Machine più impegnati. Il tocco vivace di Fatboy Slim ritorna in “Gene by gene”, riuscito e spassoso reggae-rock alla Clash del terzo millennio. Chiude alla grande “Battery in your leg”, una “This is a lot” rinsecchita drammaticamente, che ti si pianta dentro all’anima come il ricordo di un sogno o di un incubo: qui Coxon serve ancora la causa e il wall of sound della sua Telecaster ce lo ricorda.
Da segnalare a inizio album una ghost track molto arrabbiata, “Me white noise”, acida ed incalzante, elettronica, ritmica e selvaggia: voci dallo spiccato accento cockney londinese inveiscono amaramente contro “l’inglesità spregevole”, senza dubbio il pezzo più diretto e politico scritto dal terzetto (sic!) britannico.
In attesa di un ripensamento di Mr.Coxon, godiamoci la libertà totale di espressione trovata dall’amico rivale Albarn: “Think tank” è senza dubbio una sua creatura, figlia di una lunga e sofferta gestazione e soprattutto di una curiosità multiforme che si incanala in quella grande dote chiamata eclettismo. “Think tank” non è un disco rock o post-rock, ma un tentativo di dare al pop una nuova frontiera e di spostare il gusto delle masse verso fruizioni non banali, affiancandosi in tal modo a quei due/tre artisti (Yorke, Beck) che da qualche tempo tentano di fare lo stesso, sempre ben dentro la propria rigorosa identità artistica.