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I Radiohead rappresentano, ormai da anni, l’incarnazione del mio senso dello stupore: capaci di intraprendere ad ogni album una strada diversa come pochi gruppi sono stati capaci di fare nella storia della musica, capaci di ergersi al di fuori da ogni moda e di dominare con uno sguardo lucido e limpido il panorama circostante.
Ciononostante l’attesa per questo ultimo lavoro dopo la pubblicazione degli album gemelli “Kid A”/”Amnesiac” aveva in sé dello spasmodico. Chi si aspettava un tanto sussurrato ritorno alle atmosfere eteree e rarefatte di “Ok Computer” rimarrà inequivocabilmente deluso, ma anche chi si aspettava una reiterazione del discorso portato avanti con gli ultimi lavori non troverà qui piena soddisfazione.
L’elettronica è presente, ma in maniera molto diversa rispetto alla danza intellettuale di “Kid A”, e costruisce trame spezzate, come nella conturbante “Backdrifts”, ricca di riverberi e ovattati suoni cosmici che rimandano ai Kraftwerk e contornata da rumorismi, mentre in sottofondo irrompe di tanto in tanto una tastiera spettrale: un carillon nascosto sotto la coltre dei rumori che chiudono, in solitudine, il brano.
Anche se i Radiohead non confermano correlazioni dirette, il titolo dell’album proviene dalla frase che accompagnò sarcasticamente l’ascesa al ruolo di presidente degli USA di George W. Bush nel 2000, accusato dai democratici e dalla sinistra statunitense di brogli elettorali (da qui il “benvenuto al ladro”); i Radiohead inseriscono l’arguta (e, visto il momento storico che viviamo, doverosa) citazione nel brano d’apertura “2+2=5”, che dopo un dolce arpeggio di chitarra si getta in una corsa sfrenata, rabbiosa, cadenzata dal cantato nervoso di Yorke, corsa che scarta ogni ipotesi di strofa e ritornello, corsa nella quale poco alla volta il ritmo si fa spezzato, irruento, quasi ansiogeno.
Un’atmosfera soffusa, con un lieve xilofono in sottofondo accompagna “Sit Down, Stand Up”, dove poco alla volta si fanno largo battiti metronomici che sovrastano la voce di Yorke fino all’irrompere della batteria che trascina il pezzo in un crescendo mozzafiato. Brani che mutano pelle in corsa senza mai risultare artificiosi o studiati: dopo dieci anni di attività la band di Oxford ha trovato un equilibrio sorprendente fra le sue varie anime.
“Sail to the Moon” è una pausa catartica, affidata in gran parte al pianoforte e alla chitarra, che apre spazi alla mente e permette di vagare altrove, intermezzo psichedelico che più di altri riporta alla mente alcuni fraseggi di “Ok Computer”; ma questi fraseggi si sono fatti più complessi, più intricati, e sono sorretti da una trama più fine e pura. Anche qui i riverberi spaziali chiudono in dissolvenza il brano.
L’urgenza rock torna a farsi sentire in “Go to Sleep”, probabilmente il brano più immediato dell’album insieme alla ballata “Scatterbrain”, memorie siderali anticipano un’intelligente sezione ritmica in “Where I End and You Begin”, ossessivo viaggio in tenebre squarciate da tastiere stranianti e sporcizie chitarristiche.
Almeno 4 i pezzi che, lo credo fermamente, renderanno immortale questo album: la straziante e fluttuante “Suck Young Blood”, sorretta da un pianoforte imprevedibile e segnata da battiti che scandiscono il tempo riportando alla mente i canti dei forzati al lavoro. A metà canzone c’è un’improvvisa e anarchica deflagrazione strumentale destinata a svanire nel nulla, nulla dal quale si risolleva la voce sofferente di Yorke a riordinare le fila del discorso. Le influenze jazz già palesi in “Amnesiac” raggiungo la loro sublimazione.
Incredibili gli intrecci vocali di Yorke in “Punch Up At A Wedding”, che costruiscono una melodia straordinaria su un tappeto sonoro quasi indefinibile per la sua particolarità: l’elettronico finale spiroidale di matrice krautrock non fa che ispessire ulteriormente la trama sonora.
“Myxomatosis”, con i suoi controtempo, le improvvise pause e il cantato rauco, regala quattro minuti di assoluto splendore mentre “A Wolf at the Door” è una strascicata ninnananna d’addio, danza notturna per falene ubriache, elegiaco saluto pronto a inasprirsi e alla fine ad innalzarsi ad invocazione angelica.
Restano da ricordare la frastagliata e nevrotica “The Gloaming”, sorta di bolero elettronico, con i campionamenti che si aggiungono uno alla volta su una base circolare e ripetitiva, la cadenzata “There There”, scelta come singolo di lancio (uscirà il 26 maggio), e la disperata pausa acustica di “I Will”, dove la voce Yorke dà l’ennesima dimostrazione di forza e maturità.
E a conti fatti è proprio l’uso della voce uno dei fattori determinanti di quest’album: già abituato ad usare la voce come uno strumento aggiunto (basta ascoltare “Kid A”) Thom Yorke dimostra con “Hail to the Thief” di essere un cantante straordinario, sicuramente uno dei migliori attualmente in circolazione (quanti sarebbero capaci di cambiare con tanta naturalezza timbro e impostazione vocale all’interno dello stesso brano?).
“Hail to the Thief” è un album eccellente, suonato benissimo (e la sezione ritmica è a tratti davvero sconvolgente), dimostrazione di un’etica musicale che ha fatto della sperimentazione il suo unico linguaggio: capace di passare in dieci anni dal pop di “Pablo Honey” alla psichedelia di “Ok Computer” fino alla definizione di un vero e proprio “stile Radiohead”, difficile da imitare e di presa non immediata. “Hail to the Thief” è sicuramente più accessibile di “Kid A”, ma non sprecatelo per un ascolto rapido o “di sottofondo”: questo è un album che va studiato, compreso, analizzato, vissuto in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
Il mondo di Yorke, dei fratelli Greenwood, di O’Brian e di Selway è un universo a parte nella musica contemporanea: “Hail to the Thief” è il loro ennesimo capolavoro, come i suoi predecessori definitivo e già in marcia verso altre strade, altri lidi, altre storie musicali.
(Raffaele Meale)
20 giugno 2003