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In piena esplosione della moda glam-rock (soprattutto nel Regno Unito) assurge agli onori delle cronache musicali la creatura Sparks: in breve tempo “Kimono My House” diventa un classico del genere, grazie ad un’amalgama musicale che ha del sorprendente.
Il cantato di Russell Mael, quasi da voce bianca, raggiunge picchi difficilmente immaginabili, gli strumenti che lo seguono si fondono in un’unione di riff hard-rock, reminiscenze circensi, atmosfere da vaudeville e ballate alla Kurt Weill, oltre a vaghi appunti latini e orientaleggianti – e mai copertina fu più azzeccata, con quelle geishe ammiccanti e ironiche -.
L’apertura è data da “This Town Ain’t Be Enough For Both of Us”, energico duello western dove il tempo è sospeso tra gli accenni delicati delle tastiere di Ron Mael (fratello di Russell), il riff trascinante della chitarra di Adrian Fisher e l’energia tribale della sezione ritmica affidata a Martin Gordon (basso) e Dinky Diamond (batteria), mentre la voce di Russell si perde in liriche non-sense e atteggiamenti cabarettistici. Se questo brano è la dimostrazione d’intenti della band, “Amateur Hour” nel suo suadente fascino prepara il campo per il capolavoro dell’album: “Falling in Love with Myself Again” sembra provenire direttamente da un cabaret berlinese degli anni ’30, con la voce che segue la musica e viceversa, passando da elegiache esplosioni a furbi sussurri, mentre il tempo si fa spezzato e gli elementi si scontrano fra loro. Cabarettismi dotati di elettricità.
Puro orgoglio mitteleuropeo viene sprigionato da “Thank God It’s Not Christmas”, che anticipa, soprattutto nel suo epico ritornello molti episodi rock ben più famosi venuti in seguito (ascoltare il brano pensando ai Queen e poi fermarsi a riflettere potrebbe essere un esercizio non totalmente inutile). Il mondo degli Sparks fa della decadenza magniloquente il modello con il quale confrontarsi, seguendo in questo l’etica glam, ma distorce il tutto osservando le scene attraverso la lente anamorfica dell’ironia e del camp, come nella divertente e maliziosa “Hasta Manana Monsieur”, che non avrebbe sfigurato nella storica rock-pièce “The Rocky Horror Show”.
Un delicato xilofono dà il la a “Talent is an Asset”, danza liberatoria e coinvolgente, mentre più tesa si fa l’atmosfera in “Complaints”, con la voce di Mael che segue snervata i passaggi del testo, capace di muoversi fra introspettive analisi e cori da raduno. “In my Family” vive nel punto di incrocio tra l’esplosione e l’attesa, “Equator” illumina con la sua luce decadente e malinconica l’intero album, con Russell che gioca con la sua voce e l’atmosfera che si fa fumosa, indistinta, impercettibilmente perduta in un’aura sbilenca, a tratti in antitesi con se stessa, apparentemente fragile eppure capace di sorprendere per compostezza ed eleganza. “Barbecutie” e “Lost and Found” sono due aggiunte che in realtà non aggiungono nulla…ma va bene lo stesso.