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Artista poliedrico, questo Fabio Viscogliosi. Neo – rinascimentale, quasi: polistrumentista già al fianco di Married Monk e Yann Tiersen, nonché apprezzato vignettista (sue le illustrazioni di copertina e nel booklet), realizza in quasi totale solitudine questo suo debutto, “Spazio”, e crea un collage affascinante e molto personale di sonorità distanti da loro solo in apparenza.
Non tragga in inganno il nome, però, perché Viscogliosi è francese, sebbene le evidenti origini italiane si manifestino con forza nella sua musica, sia nella scelta di cantare nella nostra lingua che nei richiami alla nostra tradizione cantautorale, soprattutto quella dei ’60: il suo accento buffo e insicuro gli dona un tono da cantautore confidenziale, simile a Battisti o alle cose meno svagate di Celentano, o come una versione modernista di Tenco (ma con molta più leggerezza e sobrietà di quanto i La Crus non tentino di fare da anni).
Oltre ai brani cantati, leggeri nelle sonorità ma al contempo densi di testi minimali che assomigliano alle pagine di un diario pieno di riflessioni e di relazioni immobili, si alternano brevi bozzetti dilatati e sospesi, costruiti su quell’elettronica vintage che innerva le trame di tutto il disco: piacevoli intermezzi, che hanno in Robert Wyatt e Brian Eno i riferimenti più diretti.
Una felicissima e atipica fusione di musica leggera, vezzi modernisti e canzone d’autore affascinante proprio perché poco pretenziosa e cantata con un piglio riservato: è la timidezza la vera forza di “Spazio”, un disco che sa sedurre con semplicità disarmante.