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Gli Yakudoshi sono Fulvio Montalbano (voce), Lorenzo Stanzani e Alberto Carozzi (che si alternano al basso e alla chitarra) e Rosaria Uricchio (batteria). Il nome del gruppo è giapponese, e sta in pratica a significare le età pericolose, quelle nelle quali è facile contrarre malattie e subire disgrazie.
I quattro ragazzi cantano in inglese e in italiano, infarcendo i testi di rimandi letterari (“Amore” ad esempio è la traslazione di una poesia di Charles Bukowski, poeta che ha fatto della sua vita un’età pericolosa), e musicalmente si rifanno a scenari new wave, vicini al noise ma innamorati della fluidità musicale, dello spazio aperto, della libertà strutturale.
Il brano di apertura, “Abat-Jour”, vive sul labile confine che divide le cascate ininterrotte di note all’irruenza noise, che irrompe improvvisamente per poi lasciare nuovamente spazio alla desolazione delle note, libere di fluire, di inseguirsi, di vagare. Un concetto musicale sicuramente debitore dell’esperienza dei Sonic Youth: i riferimenti alla band newyorchese appaiono chiari e palesi in tutto l’album.
Gli Yakudoshi dimostrano di saper gestire con una maturità per certi versi sorprendente il materiale che hanno sottomano, coadiuvati in questo da Amaury Cambuzat, mente degli Ulan Bator che li ha accompagnati nello studio di registrazione, consigliandoli e aiutandoli. E sprazzi della band francesi appaiono, di quando in quando, come nella cupa e catartica “L’Eponge Et Son Image”, che si apre su un ossessivo riverbero per poi procedere sorretta da un basso corposo e da un’ectoplasmatica chitarra acida, mentre la batteria traina il tempo con perizia. “Intro” è un brano spettrale e desolato, affascinato dall’avanguardia e narrato con voce sussurrata da Montalbano, al quale vanno fatti i complimenti per le scelte vocali: testi assolutamente non facili da interpretare si fondono alla perfezione con la struttura sonora.
Questo secondo lavoro mostra, ai miei occhi, una band pienamente matura, e non mi stupirebbe affatto vedere il nome degli Yakudoshi circolare negli ambienti underground. Una band che non ha paura di apparire “poco attraente” e che disegna con perizia i suoi scenari, ancora legati ad esperienze altre, ma che mostrano in sé i germi di un futuro che non posso fare a meno di immaginare roseo. Un grande applauso ad una piccola grande band: complimenti.