Share This Article
“One, Two, Three, Four, Five, Six…Road, Road, Roadrunner”: la voce di Jonathan Richman dà il la a questo album rivoluzionario, padre putativo del punk. Lo so, leggendo lassù, vicino al titolo dell’album troverete la data 1976 e penserete “ma quale padre del punk, nel 1976 il punk era bello che nato”. Bè, chi mai potrebbe darvi torto con un’affermazione del genere? L’inghippo risiede nel fatto che tutte le canzoni che troverete qui dentro furono registrate in studio nel 1973: ci fu poi la snervante attesa della pubblicazione, che arrivò quando il gruppo in realtà non esisteva già più, con i vari membri intenti nella creazione di nuova musica (e con Jerry Harrison pronto ad accasarsi con i Talking Heads di David Byrne).
“The Modern Lovers” può vantarsi di aver avuto come ingegnere del suono in studio nientemeno che John Cale, e l’intero album appare come un figliol prodigo dei Velvet Underground periodo ’65-’68, quelli nei quali si contendevano il ruolo di leader lo stesso Cale e Lou Reed. L’ossessività narcolettica propria della band newyorchese rivive proprio in “Roadrunner”, corsa instancabile e sfrenata, battito incessante, voce snervata e svogliata. La stessa voce che trascina l’ascoltatore nel vortice suadente di “Astral Plane”, tra riflessi blues e improvvise pause puramente underground. “Old World” sembra essere stata partorita dalla mente di Reed, sia per gli aspri accenni di chitarra sia per le improvvise accelerazioni, alle spalle della crudele digressione verbale di “Pablo Picasso” c’è uno standard blues, accuratamente sporcato e reso a tratti quasi insopportabile nella sua monotonia tematica – straordinario l’assolo rumoristico che spezza il centro della canzone -.
Il mondo dei Modern Lovers è l’ambiente suburbano, attraversato dai battiti ritmici di una metropoli (e di una società) che procedono ad un ritmo predefinito, senza fermarsi a raccogliere chi resta indietro: restare indietro significa aver perso, aver fallito. “I’m Straight” è un vero e proprio capolavoro, dalla struttura sussurrata cadenzata da una batteria profonda e angosciante e narrata da Richman seguendo i cambi di tonalità del basso: poco alla volta gli strumenti prendono forza, la voce si fa quasi urlata, arrivano le tastiere, la chitarra si fa più decisa, in un crescendo musicale di rara efficacia.
L’impatto rivoluzionario della band è palesato dalla stupefacente “Dignified and Old”, che rilegge il r’n’r e il doo-woop – ascoltare i coretti in controcanto per credere – in una chiave velocizzata così come faranno, solo poco tempo dopo, i paladini del punk. Il decadentismo minimale che viene irradiato da “She Cracked” mostra nuovamente la deferenza di Richman per l’avventura dei Velvet Underground, “Hospital” presenta una struttura musicale quasi inesistente, un finissimo tappeto sonoro sul quale si stende la voce, fino alle improvvise ed epilettiche velocizzazioni, dove il canto si fa spezzato prima di ripiombare nell’atmosfera soffusa e vagamente malata dell’inizio.
Frastornante la carica di “Someone I Care About”, dove l’ossessività torna a farla da padrona, pacificante e divertito l’incedere di “Girl Friend”, dominata da un pianoforte cristallino e nella quale fa capolino una chitarra vagamente esotica. L’amore per il r’n’r domina i due brani conclusivi: l’energica “Modern World” e la superlativa “Government Center”, ovvero il risultato di un esperimento che consiste nel prendere uno standard rock (come può essere, nel caso in questione, “Rock Around the Clock” di Bill Haley) con tanto di battito di mani e cori, spedirla in una camera sotto-vuoto e condirla con voce filtrata e sezione ritmica proto-new wave. Con questa meraviglia di due minuti termina l’album e l’avventura Modern Lovers: ma, anche grazie ai Modern Lovers, nascono tre decenni musicali. Giù il cappello, please.