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Viviamo in un’epoca di contaminazioni, di riciclaggi, di filtri tesi a purificare (o a scolorire?) i nostri pensieri. Quello che i Deadburger presentano è un collage di storie, anzi di S.t.0.r.1.e. come appare il titolo dell’album, con lo zero e l’uno – il principio? – a spiccare al di sopra delle normali lettere. Storie di colonizzazione, mentale e soprattutto sociale, storie che mettono l’accento, crudelmente, sulle ambiguità di quella che ci ostiniamo a considerare “civiltà”.
Musicalmente il quartetto, che sia avvale in studio di collaborazioni di peso come gli archi presi a prestito dai Quintorigo e l’ex Scisma Paolo Benvegnù che regala la sua voce in “Santo elettrone” e “Luce” (dove si diletta anche alla chitarra), pratica una sorta di studio della contaminazione: testi che subiscono il fascino del cantautorato, riflessi rock, strumentazione eccentrica (wurlitzer, hammond, archi, tromba) e pulsazioni elettroniche e addirittura scratch. Insomma, un bailamme musicale che cerca di far confluire al suo interno tutte le aritmie paranoiche della società contemporanea. Riuscendoci solo in parte però: di ottimo livello l’esordio dell’album, assegnato a “110 giorni”, che dopo una stasi iniziale quasi psichedelica – intelligente la base percussiva – si ferma sulla frase “è tempo di cambiare” per acquistare ansia mentre in sottofondo i loops anticipano l’esplosione del falso ritornello pronto a richiudersi sulla ritmica iniziale, stavolta scandita dal synt e dalle urla di Simone Tilli.
Anche “Electroplasmi” mostra soluzioni non scontate, grazie ad una programmazione elettronica avvolgente che ben si sposa con il contrabbasso di Nicola Vernuccio; una canzone quasi sussurrata, che acquisterebbe un’aria vagamente jazzy nel ritornello se non fosse per quei rumori e lo scratch di sottofondo. Una scelta sonora che convince per la capacità di fondere gli elementi senza sprecarli o banalizzarli – rischio enorme quando si ha a che fare con derivazioni musicali così antitetiche fra loro -.
Purtroppo l’album non è tutto qui, e bisogna venire a fare i conti con brani scontati e mediocri come “Etere” che gioca male le sue carte sembrando una stanca reiterazione di una certa scena rock italiana che ha esaurito, ma forse aveva esaurito da subito, le sue intuizioni. Divertente la struttura di “Santo Elettrone”, elettronica industriale, contorcimenti, voci impazzite (da applausi il coretto in falsetto che allegramente afferma “neurorimozione direzionale”), anche se i rumorismi finali appaiono più lo spettro di un suono amato che la reale necessità del pezzo.
Il gioco rischia di farsi realmente ripetitivo in “Topi” dove il timore del già sentito è parzialmente salvato dalla tromba di Roy Paci. Lo stesso compito è affidato in “Ricambi” all’arrangiamento degli archi suonati da Andrea e Gionata Costa, i quali si mescolano alla tessitura elettronica creando un magma sonoro che, in un’atmosfera stressata e angosciosa, può addirittura far affiorare spunti orientaleggianti. La band fiorentina dimostra, negli episodi più riusciti, una maturità invidiabile, frutto sicuramente dell’esperienza (i Deadburger sono sulla piazza da anni); una maturità che gli permette di giocare con la tessitura musicale fino a renderla quasi impalpabile.
Si ha però la sensazione che i 14 brani scelti per quest’album siano realmente troppi – molti gli apparenti tappabuchi, come “Suture” e la già citata “Topi” – e che a volte Alessandro Casini, Vittorio Nistri, Simone Tilli e Silvio Brambilla siano succubi di un bambinesco desiderio di citazionismo (come leggere altrimenti la ripresa di “Santo Elettrone (parte 2)”?).
Peccato, perché senza queste piccole sbavature ci troveremmo davanti ad un gran bell’album, ben suonato e soprattutto ben pensato – il che è cosa non proprio così ovvia -. Un album che ha in sé i potenziali di un futuro di prestigio e che, a parte alcuni dei brani già citati, ha una piccola perla luminosa: i due minuti e mezzo di “Quei bravi ragazzi”, dove finalmente i quattro mettono in pratica la serialità che sulla carta viene citata spesso e volentieri – basti pensare all’aneddoto di Andy Warhol sull’ultima pagina del libretto -.