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Il nuovo disco dei Grandaddy rispecchia esattamente il nome della cittadina da cui provengono: Modesto. Battuta pessima, ma che non sposta la realtà dei fatti. Dodici brani e l’abituale miscela di pop-rock stralunato e di stramberie elettroniche a bassa fedeltà, che stavolta non riescono proprio a convincere.
Intendiamoci, il disco in sé non è così brutto, ma per almeno metà della corsa le canzoni suonano così svogliate e poco convinte che viene da chiedersi perché il gruppo sia entrato in sala d’incisione, se erano proprio loro i primi a non credere al valore di quello che avevano scritto. Attitudine slacker, estetica lo-fi, direte voi. D’accordo, penso io, ma se anche il suonare a bassa fedeltà deve diventare un automatismo di maniera, mi dite che gusto c’è?
Per fortuna, esattamente a metà della corsa, succede qualcosa, e i vecchi equilibri sembrano tornare: “Yeah is what we had” e la bella “Saddest vacant lot in all the world” riportano in mente l’ultimo Beck, “The warming sun” sfodera una malinconia che non ci saremmo mai aspettati da loro; tutto torna come ai tempi di “The Sophtware Slump” nella scanzonata “Stray dog & the chocolate shake” e nella meditabonda “O.K. with my decay”, sigillata da folate di vento gelido.
Adesso sì riconosco i Grandaddy, adesso sì il disco prende quota; ma è troppo tardi, perché arriva la psichedelia stralunata di “The final push to the sum”, e con questa canzone termina “Sumday”: un album per metà svogliato e composto in automatico, e buono invece nella seconda metà, come se i loro autori si fossero ricordati in ritardo di quello che sono capaci di fare.