Share This Article
Questa è, purtroppo, una recensione postuma. E nulla potrà cancellare il colpevole ritardo con cui l’ultimo (oramai per sempre) lavoro di Johnny Cash approda sulle pagine di questa rivista musicale. Nelle ore che hanno seguito la notizia della morte di Cash mi sono chiesto quale poteva essere il modo migliore per ricordare questo eccezionale artista; quale poteva essere l’album esplicativo di un’intera carriera? Quale lavoro poteva assurgere al ruolo, scomodo e al contempo ambizioso, di metafora di un’esistenza umana ed artistica?
Ho pensato ad uno dei tanti album country dei primi anni sessanta, magari proprio ad uno dei “Ballads of the True West”, vera e propria dichiarazione d’intenti di Cash, oppure al celebre concerto “At San Quentin”, live che racchiude nella sua stessa essenza, nella sua struttura, nella sua forma scarna il rapporto tra il cantautore e la propria musica. Dopo lunghe riflessioni sono però giunto alla conclusione che il modo migliore per rendere omaggio a questo gigante della musica che ci lascia (in sordina, senza strepiti, senza fans pronti a strapparsi i capelli, con una gentilezza che manca ad un mondo della musica che non ama più – o non ha mai amato? – l’intimità e la pacatezza) sia quello di incensare, meritatamente, il suo ultimo lavoro.
Il quarto volume dei suoi “American Recordings” è, come gli altri, l’occasione che Cash sfrutta per avvicinarsi al mondo del rock e del pop. Ma questo avvicinamento non implica in sé la svendita del proprio suono, del proprio credo musicale, della propria indole, anzi: è invece la dimostrazione più forte di un’identità musicale talmente compatta e coerente da essere in grado di rileggere nella sua ottica tutto il mondo che la circonda, che gli gira intorno. L’uomo solitario del volume precedente è solo un abbaglio, forse. E scontrarsi con il doloroso frammento acustico di “Hurt” ne è la dimostrazione palese: nelle mani miracolose di Cash lo straordinario brano firmato da Trent Reznor muta pelle e sensazioni mantenendo intatta la sua bellezza. Nel passaggio da “Downward Spiral” a qui si assiste ad un processo di purificazione della canzone, che trattiene, fragile e frastagliata, la sua urgenza.
Ma anche brani come “Bridge Over Trouble Water” – con la voce di Fiona Apple a far da accompagnamento – o “In My Life” dal repertorio Beatles vivono di nuova vita, in improvvisa e salvifica osmosi con la voce profonda, ferita, malinconica e a tratti imperfetta in maniera sublime. Indescrivibili le sensazioni che la rilettura della canzone dei baronetti libera nell’aria. E pensare che questo album riflessivo e straziante si era aperto sulle note scatenate della title-track! A conti fatti il vero e proprio capolavoro dell’album resta la rilettura, ossessiva e tenace, di “Personal Jesus”, brano che fece – nell’ormai lontano 1990 – la fortuna dei Depeche Mode di Martin Gore e Dave Gahan: Cash la interpreta con una verve che riporta contemporaneamente al blues, ai canti di lavoro e a sprazzi pianistici vagamente jazzati, rendendola nuova e immortale. In mezzo a questa messe di cover si fanno spazio standard country di assoluto valore come “Desperado” o l’evocativa “The Streets of Laredo”, fantasma che sembra provenire da storie lontane, da epoche passate, da mondi che è impossibile far rivivere.
Ci sarebbe ancora molto da ricordare e da annotare – la delicatezza senza fine di “The First Time Ever I Saw Your Face”, il bel duetto con Nick Cave in “I’m So Lonesome I Could Cry”, quella “We’ll Meet Again” ripresa da Parker che mette addosso, come i migliori jazz, grazia malinconia e allegria -, ma avrebbe poi realmente senso? Nella giornata di ieri anche Johnny Cash, uno dei massimi cantautori del ‘900, ha deciso di dirci arrivederci. Si è allontanato, lentamente e senza voltarsi, verso un orizzonte amaranto. Qualcuno afferma di aver sentito nell’aria una voce intonare “Danny Boy”…ma forse è solo una leggenda. Forse…