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La settima data del Tora! Tora! 2003 si svolge in una cornice decisamente suggestiva: l’Appennino reggiano, fresco e battuto da un vento forte e fastidioso per tutto il giorno, ai piedi di una strana montagna dalla sommità piatta, la Pietra di Bismantova (qualcuno di voi la ricorderà campeggiare sulla copertina di “Üst”, l’album del 1996 degli Üstmamò, che abitano a pochi chilometri da qui). Il cast di questa data è uno dei migliori, con i nomi più blasonati e più di richiamo; sorprende un po’ che l’area del concerto rimanga pressoché deserta per le prime due ore del concerto, e anche a fine serata l’affluenza non è decisamente quella attesa: siamo lontani, almeno per oggi, dalle 40.000 persone della data di Fossacesia di metà Luglio.
In perfetto orario aprono le danze i Portfolio, giovane band reggiana che si trova catapultata sul palco per aver vinto le selezioni del locale concorso “Terremoto rock”; i tre sono autori di un post-rock evocativo ma un po’ risaputo, dalle parti dei Mogwai o dei Giardini Di Mirò. Suonano solo due canzoni, entrambe rette da una tromba e da un laptop, e sono decisamente meglio nella versione strumentale, senza testi recitati. Dopo di loro è il turno di Strabba, anch’egli reggiano, che si presenta sul palco da solo, accompagnandosi con una chitarra acustica; le sue due canzoni si perdono nel grande spazio di fronte a lui, scivolano senza lasciare traccia; decisamente meglio di lui i T con zero, che, sebbene suonino abbastanza scontati nella loro unione di rock ed elettronica che sta fruttando il successo a band come Il Nucleo, almeno dimostrano una buona capacità di tenere il palco.
Dopo il rock insipido dei romagnoli Brevia è il momento della prima scossa della giornata: salgono sul palco gli Judah, e la loro proposta è sorprendente per molti, o almeno per tutti quelli che non hanno mai sentito parlare dei Suicide. Musica scomoda e antimelodica, elettronica impossibile da ballare, rumore, voce scura e ipnotica. Senza dubbio sono validi, ma è anche vero che certe pose da maledetti lasciano un po’ il tempo che trovano. Pochi sembrano gradire, ma tra questi, dietro le quinte eppure visibili, ci sono Manuel Agnelli e i Marlene Kuntz al gran completo, visibilmente soddisfatti dalla prestazione del duo. Tocca ora ai C.V.D., mentre io inizio a fare la spola tra il palco e l’ufficio stampa per vedere di rimediare un’intervista con i Bartòk ed i Marlene Kuntz; non ho avuto modo di prestare molta attenzione al quartetto ravennate, ma per quello che ho sentito mi sono sembrati piuttosto validi, nel proporre rock con forte presenza di elettronica: una miscela rischiosa e fin troppo praticata in questo periodo, ma i nostri se la cavano piuttosto bene. Rimaniamo in attesa del loro primo disco per giudicare meglio.
Rumorosamente eccitanti i Candies, trio della Suiteside dedito a un post-punk che riporta in mente tanto i Fugazi quanto i Television: canzoni brevi e nervose, un set convincente che purtroppo hanno ammirato in pochi. Dopo di loro salgono sul palco i Bartòk, autori di una delle migliori esibizioni della giornata. Li conoscevano in pochi, ma hanno ottenuto i primi applausi non di convenienza della giornata, segno che sono stati una sorpresa positiva per tutti i presenti. Nonostante qualche problema ai suoni nell’iniziale “In cold blood” (il vento ha soffiato veramente forte per tutta la giornata, dando non pochi fastidi a band e al pubblico infreddolito, che per tutta risposta si è lanciato in massa al banchetto del merchandising per comprare le felpe con il logo degli Afterhours), i Bartòk hanno veramente impressionato per tenuta di palco e per volumi di suono: stupefacente il muro di rumore innalzato durante “Slacker”, a contrastare con la dolcezza di “Late fragment” e con la conclusiva “Few lazy words”, dilatata e memore del prog. Insomma, un gran bel concerto, bravi davvero. A spegnere l’entusiasmo ci pensano i Breakfast e il loro tentativo di pop psichedelico, piuttosto scialbo e poco interessante. Alla seconda canzone decido che quello che ho sentito è sufficiente, vado nel backstage e incontro Loris, il tastierista dei Bartòk.
Finalmente, davanti a un piatto di pasta-che-forse-una-volta-fu-calda-e-cotta, riesco a fargli qualche domanda sul loro “Few lazy words”, che continuo a ritenere uno dei miei dischi dell’anno. Finita l’intervista, e finito pure il set dei Breakfast, mentre ormai il sole sta tramontando, arriva Cristina Donà, e la gente inizia ad assieparsi sotto il palco. Scaletta quasi tutta incentrata sull’ultimo album “Dove sei tu”, alle cui canzoni dona arrangiamenti più robusti, sostenuta da una band davvero affiatata. Splendida “Il mio giardino”, coinvolgenti “The Truman show” e l’ormai nota “Triathlon”, intensissima “Invisibile”. Chiude con una travolgente “Ho sempre me”, rumorosa come mai mi era capitato di sentirla: una vera bellezza, che questa sera comprendeva anche una clamorosa versione di “Ground on down” di Ben Harper. Da pelle d’oca, una voce magnifica e imprendibile. Di nuovo, lo stacco con il gruppo successivo è netto e spiazzante.
Tocca ai La Crus, ai quali spetta di diritto la palma di delusione della giornata. Partono bene con “Dov’è finito Dio?”, ma da lì in poi il concerto prende ben altra piega: massacrano di chitarre “Nera signora”, “Dragon” è caotica e confusa, Joe prende delle gran stecche durante “Ricordare”, sembra quasi svogliato durante “Ad occhi chiusi” (tra l’altro, c’era proprio bisogno di cantarla da solo? La Donà era dietro le quinte, bastava un fischio ed ecco ricomposto il duetto originale…mah). Si riprende un po’ con “Dentro me” e “Tutto fa un po’ male”, ma è tardi, e il pubblico è già annoiato. Qualche applauso gentile, e dopo dieci minuti tocca già ai Marlene Kuntz. Il loro ultimo “Senza peso” ha diviso parecchio, ma dal vivo i cuneesi non si discutono, sono una vera forza: “Lieve” è meno aspra del previsto, “Cara è la fine” inizia ad alzare il muro di distorsioni, mentre “A fior di pelle” guadagna molto nella dimensione live. Un netto salto di qualità avviene solo con “Ape regina”, splendida e potentissima, così come la decadente “Ineluttabile” e una furiosa “Ci siamo amati”. Chiude, un po’ ruffiana, “La canzone che scrivo per te”.
E’ il momento dei padroni di casa, ora, e il pubblico è in fermento. Manuel Agnelli entra e si siede alle tastiere, e i suoi Afterhours iniziano il set con grande classe, con la cover di “La canzone di Marinella” di De André. La band è in gran forma stasera, potente e decisa a ben figurare: basta solo ascoltare il finale incandescente di “Quello che non c’è”, o la rabbia messa durante “Non sono immaginario”, per rendersene conto. Da qui in poi Manuel inizia ad assomigliare a una specie di supereroe, in lotta contro la furia del vento e la sfiga: problemi di suono funestano tutto il set, gli si rompe una corda della chitarra durante un assolo… insomma, un mezzo disastro, e nonostante questo, gli Afterhours hanno fatto un concerto semplicemente PAZZESCO. “Male di miele” è devastante come e più del solito, “1.9.9.6.”, “Bungee jumping”, la cover urlata di “Mio fratello è figlio unico”… insomma, bravissimi.
Erano le 23. Ero al festival dalle 16, senza praticamente perdermi una nota. Beh, ho pensato semplicemente che potevo privarmi del set conclusivo dei Modena City Ramblers, e dell’aftershow dei Dining Rooms. Così, morto di fatica e senza sensi di colpa, ho girato la macchina verso casa, scampando miracolosamente ad un autovelox sulla via del ritorno.
Una bella esperienza, questo festival. Ben organizzato, curato in ogni sua parte. E sapete una cosa? Quando si leggono le interviste di Manuel Agnelli in cui parla di clima d’amicizia, di rilassatezza, di pacche sulle spalle ecc. ecc., beh, E’ TUTTO VERO. Musicisti dietro le quinte ad assistere agli show; Roberto dei Bartòk, tatuaggio con il simbolo degli Einstürzende Neubauten sul braccio e grande carica sul palco, tra la gente e di fianco a me ad ammirare la Donà; la appena citata, aristocratica rock lady, seduta a chiacchierare con la band davanti al suo furgone; Agnelli e Godano l’uno di fianco all’altro; io a cena/intervista con Loris dei Bartòk, le facce agitate e contente dei gruppi che hanno suonato in apertura. Potrei continuare a lungo, ma portarsi dietro queste immagini, e scoprire che tutte le parole positive spese da altri su un avvenimento così importante per la musica italiana sono vere, beh, non può che fare piacere. Chi può, non si perda il gran finale di Milano, il 20 settembre. E’ un consiglio amichevole.