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Circa due anni fa portai un mio amico a vedere un concerto acustico di Brychan, un venerdì sera. Non gli piacque molto. Beh, a essere sinceri non mi parlò per una settimana. Quando, dopo giorni, rincominciò a rivolgermi la parola, fece un solo commento: “La voce era un lamento continuo, e le canzoni tutte uguali”. Ora, non è questo il momento di discutere le competenze critiche in materia di questo mio amico, ma va detto che poteva avere in parte ragione.
Davanti a un disco come questo “Reel in between”, però, tutte queste critiche non hanno più modo di stare in piedi: mai in un disco del cantante gallese gli arrangiamenti erano stati così vari e devianti dalla sua classica forma folk-rock, né la voce (splendida) era stata dosata con questa sapienza.
I passi in avanti compiuti da Brychan sono evidenti fin dal primo ascolto: non c’è quasi traccia dell’antica magniloquenza vocale, ad eccezione di “Souls” (dove la voce potente si stempera subito in una fluida melodia di stampo wave, rendendola una delle migliori canzoni dell’album) e dell’elegiaca “Love you”.
La varietà dei suoni, inoltre, sorprende soprattutto se paragonata ai dischi precedenti: basti pensare all’uso mai invadente dell’elettronica in quasi tutti i brani; all’attacco della trascinante “Desert flower”, dove la ritmica spigliata incontra fiati quasi funky; a “Vendetta”, dove il cantato si alterna a un convincente parlato nelle strofe; alla bella “Diamonds”, dove, al posto dell’esplosione ritmica che ci si attende dopo il ritornello, arriva un elegante bordone d’archi.
Insomma, “Reel in between” si guadagna senza sforzo il titolo di miglior disco nella carriera di Brychan, anche grazie alla produzione attenta e rispettosa dell’ormai onnipresente Paolo Benvegnù; un album raffinato e piacevole, davanti al quale perfino quel mio amico potrebbe ricredersi…