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Ci sono giorni dove il cielo è buio, la pioggia tarda a cadere ma tu sai comunque che arriverà, e che niente potrà squarciare le nuvole. Ecco, questo disco assomiglia a quei cieli. Questo è il suono che hai in testa quando ti rendi conto che tutto va male, e che non puoi essere consolato.
Fantasmi personali, Ray Bradbury, Pirandello, la banalità della morte, un Dio a cui continui ad aggrapparti pur non sapendo né osando chiederti se esista davvero, la paura per un amore che può spezzarsi, la rabbia che ti coglie nel luogo dell’addio: “Gran calavera elettrica”, un disco meraviglioso e durissimo, è tutto questo. Non ti vuole consolare, ma nemmeno vuole mentirti: c’è più verità, e c’è più bellezza, in una sola nota di questo album che in centinaia di altre canzoni piene di tormenti e di paure di plastica; due grandi scomparsi, Johnny Cash e Piero Ciampi, potrebbero adorare questi tredici momenti in maniera incondizionata, mentre Nick Cave e i Calexico più scuri invidieranno la scrittura eccellente di queste canzoni.
“A che serve lo zolfo” mostra anime viventi eppure già dannate, alla ricerca di una dignità che la vita gli nega; “In coda” procede come un macabro eppure normalissimo elenco, l’ineluttabilità della fine narrata con il sostegno di un banjo dondolante; “Senza sonno” è il dolore di una donna che veglia l’uomo che ha ucciso, ed è Nada (sempre meno Nada e sempre più Malanima) a regalare un’interpretazione straordinaria, prima sommessa e poi violenta come l’esplosione di qualcosa troppo a lungo nascosta; e ancora altre bellissime canzoni, attente ai minimi dettagli su cui costruire una narrazione: la veglia notturna popolata da troppi ricordi di “Trave”, gli archi impazziti che scuotono “Nell’orto degli ulivi” (“nell’orto degli ulivi/ a perderci eravamo in due / passando da una stanza all’altra / cercando le risposte e il senso / a pregare”), l’amore tremante e denso di ammirazione che porta un po’ di luce (“Pietra bianca”), la beffarda e perfetta cover di “Little bit of rain” di Fred Neil.
John Parish regala a queste canzoni tutta la passione che non aveva mai trasmesso prima d’ora in veste di produttore: chitarre taglienti e intrecciate a meraviglia su una ritmica battente e spesso in primo piano: country/folk elettrificato, rabbioso, senza speranza.
Una volta ascoltato “Gran calavera elettrica”, non vi tornerete molto spesso: vi scaverà dentro e vi farà male. Un aspro prezzo da pagare, per poter godere nuovamente di un disco che molti altri musicisti e molti altri scrittori invidieranno a lungo a Cesare Basile.