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L’era Bush, con la sua inarrestabile corsa al disarmo dei suoi nemici tramite il tentativo di distruzione di intere civiltà e di culture sta avendo i suoi riflessi anche nei campi artistici, nel cinema (e lo si è visto all’ultima Mostra di Venezia), nell’arte moderna (e anche qui se n’è avuta bella mostra alla recente Biennale nella città lagunare) e anche, logicamente, nella musica.
I Matmos, reduci dai loro campionamenti di suoni da sala chirurgica si ripresentano sulla scena con “The Civil War”, e mai titolo fu così elementare e al contempo così incisivo. Il duo statunitense intraprende una sfida affascinante quanto rischiosa: riscrivere in musica due secoli di storia, a partire dalla guerra civile inglese della metà del seicento per approdare alla guerra civile americana, quella tra nord e sud celebrata in svariati romanzi e pellicole cinematografiche.
Questo ponte epocale è reso stabile da una ricerca strumentale che ha dell’eccezionale: se da un lato si è portati ad identificare la musica dei Matmos come un’insieme studiato di campionamenti, qui si ha a che fare con veri e propri strumenti musicali. Si viene dunque a creare una sorta di “guerra civile sonora” nello scontro tra il freddo dei suoni registrati e il calore emanato dalla strumentazione acustica. Una guerra che a tratti sembra possedere addirittura qualcosa di ideologico, ma che i due riescono a far confluire nella magnificenza di “Regicide” che dopo essersi aperta sul rintoccare delicato di un hurdy gurdy e sul fluire armonico del flauto si perde in ossessioni aritmiche, che ne spezzano la forma e ne trasfigurano la sostanza.
Tutto l’album è pervaso da un’atmosfera battagliera, e quasi tutti i brani si presentano come marce militari che, nel caso di “Z.O.C.K.”, rievocano eserciti celtici, scozzesi in kilt pronti a combattere l’Impero britannico. Il digitale si fa sentire con maggior forza nelle cacofonie e nei suoni siderali di una delle sezioni di “Reconstruction” – brano lungo più di nove minuti -, ma è un episodio pressoché isolato schiacciato dal tamburo iniziale e dal sorprendente irrompere della chitarra: il ritmo si fa più convulso e a tratti sembra quasi di trovarsi davanti una band del southern rock.
La guerra cambia epoca e continente, ma non cambia base – e quanta profondità possa esserci dietro una scelta così etica meriterebbe un discorso a parte – né cambia struttura, semmai si perde in flussi sonori sempre più estremi. Dopo il clamore irrompe la calma irreale di “Y.T.T.E.”, nei tintinnii delicati del suo intro, nella fantasia acidula della chitarra e nella linearità melodica della base. Ma nuovamente si fa largo a stasi, stavolta frastagliata, sporca, rumorosa, per niente rassicurante: la musica ora muore, tornando al tintinnio iniziale, e resta solo la malinconica memoria della chitarra, suono senza tempo e senza più luogo. Una suite di straordinaria forza metaforica, senza alcun dubbio.
Resta tempo per l’acustica spezzata di “For the Trees” che sposa all’elettronica il gusto dell’improvvisazione e per la rilettura sarcastica di un classico americano come “The Stars and Stripes Forever”, marcia ridicolizzata con suoni da videogame. In “Pelt and Holler” e “The Struggle Against Unrealty” scopriamo che i Matmos che conoscevamo sono ancora vivi e vegeti: uno scarto sonoro che serve a presentare “For the Trees (Return)”, struggente episodio country che rievoca tramonti western che non riusciremo mai a vedere così arancioni, con l’eroe che si allontana solitario verso la linea orizzontale in sella al suo mustang, accompagnato solo da un sigaro messicano e da un banjo a tracolla, con fantasmi di montagne brulle a far da contorno. Brano assolutamente inaspettato, capace di squarciare anche il cuore più duro. Perla strabiliante di un album non facile – ma neanche così difficile come si potrebbe supporre -, da ascoltare di testa ma, il che è fondamentale, anche e soprattutto di pancia.