Share This Article
Nel 1977 viene pubblicato l’album che darà gloria eterna ai Television di Tom Verlaine.
“Marquee Moon” è uno dei pochi pezzi pregiati capaci di far convivere al suo interno tutte le pulsioni artistiche di un’epoca storica, divenendone baluardo e coscienza mitica.
La storia reale dei Television ha purtroppo durata molto più breve andandosi ad inabissare appena due anni dopo, a ridosso della tournée di lancio del secondo album, il controverso e incompiuto “Adventure”. E proprio dal giro promozionale in questione arrivano queste registrazioni, pubblicate una prima volta in cassetta nel 1982 e ristampate nel 1999.
Spesso si considera il rapporto live un accessorio in più, un feticcio da fan maniacale, ma qui siamo davanti ad un vero e proprio capolavoro: alla stessa stregua di band come Who e Grateful Dead la dimensione dal vivo trasfigura Verlaine e compagnia, tesi allo stravolgimento delle loro creazioni, arricchite e modificate, e alla rilettura di assaggi di storia della musica. Stupefacente come i quattro riescano a giocare sulla convivenza fra l’urgenza nevrotica di una “See No Evil” trascinante e il fluire armonico e spezzato di quel capolavoro musicale che risponde al nome di “Prove It”, qui in una versione da lasciare senza fiato, con le chitarre di Verlaine e Lloyd che giocano tra loro.
Il repertorio è costituito in stragrande maggioranza dai brani dello storico debutto, che ben si prestano ad aggiunte – l’assolo centrale di “Elevation” mai così acido e disperato, mentre la canzone procede a tappe accelerate verso l’angoscia ritmata dai singulti di chitarra -. “I Don’t Care” è un rock’n’roll classico ripetutamente stonato dalla voce di Verlaine e raddolcito dai coretti di Lloyd e Fred Smith, il bassista che andò a sostituire Richard Hell, colui che aveva contribuito a fondarli i Television. Dal repertorio di “Adventure” arrivano “Foxhole” e “Ain’t That Nothin’” riacquistando quella corposità avvertibile solo in parte nel lavoro in studio – soprattutto “Foxhole” che si tramuta in una torrida orgia dittatoriale (il riff imperioso che si scontra con le svisate chitarristiche) -, e dimostrando ulteriormente l’enorme statura live della band.
Ma i veri e propri gioielli sono altri: la title-track, omaggio ai 13th Floor Elevators di “Fire Engine”, una “Venus” ironicamente definita “de Milo”, gli otto minuti di “Knockin’ on Heavens Door”. L’hit di Dylan diventa nelle mani dei quattro una materia plasmabile, la voce di Verlaine non si preoccupa di strascicare via le parole e regala una performance dimessa che si presta perfettamente al significato del brano, gli strumenti tra pause, digressioni, fughe di libertà si rincorrono tra loro, dando un contrappunto ai silenzi improvvisi degli altri. Con questo capolavoro si chiude, nella riedizione, il CD 1.
La seconda parte dell’album presenta solo quattro brani, ma andrebbe studiato in maniera capillare, visto che le quattro canzoni contribuiscono in maniera determinante a definire come capolavoro questo live. Innanzitutto qui si trovano i quindici minuti di “Little Johnny Jewel”, ripresa del singolo che iniziò a far parlare della band nel 1975 e che costituisce, con ogni probabilità, il più bel brano della band. Per anni “The Blow-Up” è stata l’unica occasione per ascoltarlo e ammirarne lo splendore, prima che il singolo venisse inserito nelle bonus-track della ristampa di “Marquee Moon”, abitudine spesso abusata che ha preso piede da pochi anni a questa parte. Monotonia che si scontra con l’irriducibile e travolgente sete di libertà della chitarra di Verlaine, sete che nella versione per il pubblico raddoppia, visto che il brano passa dai sette minuti ai quindici mentre si racconta la storia di Johnny Jewel il fico, venuto qui per “raccontare una visione”. Una meraviglia da non lasciarsi scappare.
Se “Friction” è l’occasione per spezzare i tempi e tornare ad una forma canzone più classica, l’amore per la dilatazione musicale torna a dire la sua nell’immaginifica “Marquee Moon”, monolito di rara grandezza accolto dal fragore degli applausi e veramente immortale, con quell’intro ipnotico sul quale si adagia la voce di Verlaine e con quegli assoli infiniti che si rincorrono in praterie musicali di cui solo i Television sembrano conoscere le linee direttive. Anche qui quasi quindici minuti di puro splendore. Dimostrazione incontrovertibile del fatto che i Television furono le “chitarre della new wave” (lo saranno anche i Sonic Youth, ma con un approccio completamente differente).
Il tutto si chiude con la rilettura di “Satisfaction” dei Rolling Stones. Dopo aver omaggiato la psichedelia (13th Floor Elevator) e il folk (Bob Dylan), Verlaine, Lloyd, Smith e Ficca mettono le mani al Roc: una dimostrazione d’appartenenza di rara forza. Quelle dei Television non sono cover (e così si intitolerà un album del Verlaine solista) ma riletture nel senso più reale del termine, e vengono trasfigurate grazie all’immaginario della band. Il più grande spettacolo live di quegli anni a New York, senza dubbio.