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Anno Domini 1971: reduci dal bel risultato di “If I Could Do It All Over Again, I’d Do It All Over You”, uno degli album di fondazione del Canterbury-sound, i Caravan perfezionano ulteriormente lo stile dando alla luce uno dei grandi classici del progressive, capolavoro di ibridazione tra folk, jazz e pop.
La rosata copertina ispirata a “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien introduce alle atmosfere brumose di un disco scritto e arrangiato con equilibrio esemplare, coerente e uniforme nell’ispirazione, abile nel far emergere a poco a poco i suoi tesori dietro una patina di arcana malinconia e apparente semplicità espressiva che trascina irresistibilmente l’ascoltatore in un mondo lontano e sfumato, irresistibilmente fiabesco.
Richard Sinclair al basso, il cugino David alle tastiere, Pye Hastings alla chitarra e Richard Coughlan alla batteria: questa la formazione storica destinata a rimanere negli annali del rock. Aggiungete i fiati del fedele Jimmy Hastings, grande jolly della scuola di Canterbury, e otterrete la maestosa discrezione, l’epica delle piccole cose di “In The Land…”.
Il lato A è certamente quello più paradigmatico. Il recitativo di tromba che apre “Golf Girl” è di quelli che lasciano il segno, mentre la voce rilassata, rassicurante e ben salda nell’intonazione di Richard Sinclair cattura come una sirena. L’incedere musicale dei Caravan è senza strappi violenti, privilegiando i trapassi morbidi e naturali sia nel ritmo che nella melodia; le tastiere di Dave Sinclair perfette nella timbrica (ottimo l’effetto violino), l’onnipresente chitarra ritmica, di sapore prettamente folk, i controcanti vocali assai moderati ma sempre azzeccati, ed ecco che siamo già a “Winter Wine”, brano di maggior lunghezza e impegno strumentale (di assoluto nitore la voce di Sinclair nello struggente inizio) e, a seguire pressoché senza stacco, la briosa “Love To Love You”, ritmatissima filastrocca folk cantata da Pye Hastings, il pezzo più allegro dell’album, che sortisce in un contagioso assolo flautistico.
La quarta traccia è costituita dalla struggente title track, forse quanto di più alto i Caravan abbiano espresso in un’unica canzone, e quintessenza del loro stile: in una ipotetica classifica delle migliori ballate di sempre – non solo progressive – “In The Land Of Grey And Pink” occuperebbe certamente una delle primissime posizioni: epocale, nella sua semplicità, l’inserto di pianoforte nel cuore del brano – come piovuto dal cielo – che lega alla perfezione con il seguente assolo elettrico.
Il lato B è interamente occupato dalla suite “Nine Feet Underground”, in cui le influenze jazzistiche del gruppo hanno modo di sfogarsi pienamente in lunghe digressioni strumentali di sapore più improvvisativo, in una scrittura più aperta. Non c’è lo stesso fascino di ciò che precede ma la qualità è sempre alta e in più si aggiunge il sax: ottimo il finale, frutto dell’unica vera rottura ritmica del disco, un tipo di improvvisa accelerazione già sperimentato in “Can’t Belong Now” dell’anno precedente.