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La prima domanda che viene in mente, ascoltando il secondo disco dei Prague (one man band di stanza a Londra creata Alessandro Viccaro), è per quale motivo il suo responsabile abbia voluto per forza di cose piazzarsi anche davanti al microfono: con tutti i cantanti decenti che ci sono in giro, perché ha voluto insistere per cantare, perché?
Non sarà certo il primo cantante stonato della storia, questo è vero, ma la sua voce connota pesantemente le otto canzoni del disco, e finisce per renderle tutte troppo omogenee tra loro. È un peccato, perché in sé i brani non sono poi così male, spesso gli intrecci di chitarre sono molto validi (nell’iniziale “Shot” soprattutto) e gli inserti di piano Rhodes (nella bella e triste “Bad things happen” e in “Bridges”) azzeccati; tutto viene vanificato, però, da una voce eccessivamente monocorde e dalla struttura delle canzoni che tende a ripetersi.
Musicalmente siamo nel territorio ampio disegnato tra post-rock e lo-fi, tra narcosi alla Codeine e scarnificato rock alla Pedro The Lion; il suono risulta più rumoroso, più pieno rispetto al debutto di due anni fa, e questo probabilmente anche grazie al contributo di alcuni musicisti esterni: Giulio Calvino dei Candies si sposta per l’occasione dietro alle pelli e dota le canzoni di un drumming rudimentale, mentre Matteo dei Lo-fi Sucks! è responsabile dei buoni inserti di Rhodes di cui si parlava prima.
Un album come tanti, dunque: canzoni discrete, di genere un po’ risaputo, e nulla che risalti in modo particolare.