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Van Dyke Parks è una figura fondamentale della scena pop statunitense degli anni ’60: celebre soprattutto per aver collaborato con Brian Wilson e i Beach Boys a “Smile” l’album mai nato, perduto, la perla nascosta di quel decennio – si parla da tempo di una sua stampa, chissà se arriverà mai -, il musicista di Hattiesburg ha in realtà prestato le sue capacità anche a personaggi del calibro di Tim Buckley, Frank Zappa, Byrds e Laurie Anderson.
Il suo esordio solista è questo “Song Cycle”, nel quale vengono condensati tutti gli amori musicali dell’autore, dal ragtime alle orchestrazioni classiche, passando logicamente per il canale della musica pop dell’epoca. E proprio da uno dei massimi autori pop del periodo, Randy Newman, Parks prende in prestito il brano che apre quest’album: in “Vine Street” l’andamento bluegrass dell’inizio (carico di riverberi e cori) muore dopo cinquanta secondi lasciando posto prima ad una delicata orchestrazione e poi ad un rapido passaggio boogie. La cover viene così totalmente riscritta e stuprata, mostrando il lato più geniale dell’autore, capace di condensare in brani standard di poco più di tre minuti richiami musicali che poco o nulla hanno a che fare tra loro (vedere l’irrompere improvviso di clangori orchestrali che ricordano le opere di Gershwin).
Anche alle prese con brani originali Parks mostra la stessa capacità camaleontica, come in “Palm Desert”, dove unisce alla struttura classica dell’operetta un crescendo degno di Broadway e un’armonica a bocca che riporta al folk mentre il cinguettare di uccellini si fa largo di quando in quando. Una schizofrenia musicale sicuramente debitrice dell’epoca storica – l’album uscì in piena “Summer of Love” – ma che per finezza ricorda più i collage arditi che oltreoceano portava avanti l’Incredible String Band che i lavori dei colleghi statunitensi. Tra le perle più luccicanti è doveroso citare l’intro settecentesco per spinetta di “Widow’s Walk” lesto a trasformarsi in reminescenze di Kurt Weill, la deturpazione di brani classici della storia statunitense in “Van Dyke Parks”, l’elegante e stravagante incedere di “Public Domain”, l’omaggio ai “Colours” di Donovan (ovviamente destrutturalizzato fino all’eccesso), e la delicatissima conclusione affidata, non a caso, a “Potpourri”.
Un album dal quale risulta difficile non farsi ammaliare, talmente geniale è l’eclettismo musicale di Parks, ma che necessita, proprio per la sua struttura frammentata e a tratti quasi episodica, di un ascolto attento, certosino. Un album da non buttare sul lettore a casaccio, ma da cullare, curare e crescere. Perché il godimento che se ne può ricevere è di proporzioni realmente notevoli. E sarebbe un vero peccato sprecarlo per troppa fretta. Van Dyke Parks deve essere rivalutato, e la sua rivalutazione deve partire proprio dalla sua opera più eccentrica. Su, avanti, la sfida è aperta!