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Nella scena berlinese dei primi anni ’90 gli Atari Teenage Riot apparvero con un’irruenza pari alla deflagrazione di un ordigno; formati da Alec Empire e Hanin Elias proponevano una fusione delle scorie post-punk con l’elettronica, entrando a far parte di quella cerchia di artisti la cui musica venne definita Digital Hardcore.
Alle soglie di una Germania nuovamente unificata e pacificata – così doveva essere, secondo i piani – il loro attacco al neonazismo della nuova classe dirigente era un vero e proprio pugno allo stomaco. Sono passati dieci e più anni, gli Atari Teenage Riot non esistono più, Alec e Hanin si sono divisi e procedono ognuno per la propria strada. Ma senza alcun desiderio di cancellare dalla memoria quell’esperienza musicale ed umana.
Hanin Elias, dopo aver fondato nel 1998 l’etichetta Fatal, nella quale far confluire femminismo, socialismo e sociologia, ha dato alle stampe due album da solista: il primo, “In Flames”, è servito per accennare le coordinate del proprio stile musicale, e questo “No Games No Fun” per centrare in pieno il bersaglio. L’attacco di “Catpeople” è delicato, affidato solo alla chitarra e ai cori che fanno da contorno alle voci della Elias e di Mario Mentrup. Un intro che prepara alla ben più tirata “One of Us”, elettronica snervata che riporta la musica in territori più consoni all’artista, coadiuvata qui – come anche in altri quattro brani – da C.H.I.F.F.R.E., altra creatura elettronica che ha aderito al Fatal-Manifest, manifesto programmatico delle intenzioni politico-musicali della Elias.
Le collaborazioni hanno un peso non indifferente in questo album, ne sono anzi parte fondante; Hanin Elias intraprende la via solista ma sembra avere l’intenzione di circondarsi, in maniera quasi protettiva, di amici e colleghi. Alexander Hacke degli Einsturzende Neubauten di Blixa Bargeld le regala la musica di “Spirits in the Sky”, dove una melodia oscura è continuamente sovrasta da rumorismi che la rendono frastagliata, angosciosa, a tratti quasi impalpabile, tenebrosamente eterea. In “You Suck” è la volta del vecchio compagno d’armi Alec Empire, in una sorta di ritorno alle origini furioso e metronomico che non appare comunque uno dei momenti più ispirati dell’opera. P. Virus (altro adepto della Fatal) alla chitarra e Merzbow al rumore si occupano di comporre l’atmosfera instabile e marcia di “Rockets Against Stones”, in “Blue”, “The Bee” e “Tonight” fa capolino la voce e la musica di Khan.
Ma il momento più emozionante resta forse l’incontro, nella title-track, con il genio di J. Mascis, uomo simbolo dell’avventura dei Dinosaur Jr. qui impegnato alla chitarra e alla batteria (mentre la parte elettronica e le tastiere sono trattate dal solito C.H.I.F.F.R.E.); un perfetto brano che celebra il matrimonio tra la nuova scena berlinese e la storia dell’indipendentismo statunitense. La furia catartica che accelera i ritmi e rende convulso il tutto è uno dei punti più alti di un album che a tratti suona addirittura fin troppo omogeneo. Questa è invece la dimostrazione delle varie estrazioni culturali dalle quali prende linfa la musica della Elias, che per restare in tema dedica la magmatica “Drop Out” alla memoria di Ian Curtis (“I Hate to See My Time Go By/There’s Just No Time to Fly/My Liveline is not Very Long/and I’m Already Gone” canta con frenesia dolente l’autrice), monolito musicale, figura mitica che sorveglia dall’alto – o dal basso? – i suoi discepoli.
Quest’album mostra un’ispirazione non continua e una ricerca sonora che rischia, in alcuni momenti, la staticità, ma anche l’intelligenza musicale della Elias, la vitalità di una scena musicale forse troppo misconosciuta e, fattore che non può essere messo in discussione, una notevole classe.