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I Pearls Before Swine si formano nel 1965 per volontà di Tom Rapp, cantautore che secondo la leggenda avrebbe addirittura vinto un concorso di metrica poetica al quale partecipava anche Robert Zimmermann, noto ai più col nome d’arte di Bob Dylan. Quando nel 1967 la band dà alle stampe l’esordio “One Nation Underground” la leggenda acquista notevolmente in credibilità: l’arte di Rapp si basa sulla fusione strabiliante di figure retoriche classiche con reminiscenze bibliche – e già il nome della band dice molto al riguardo -, entrambe rilette sotto una veste visionaria che ha in sé spesso i germi dell’ironia sottile.
Non a caso per identificare il suono dell’album Rapp sceglie la pittura di Hieronymus Bosch, che domina con il suo celebre “Giardino dei piaceri” la copertina. La struttura sonora dei Pearls Before Swine è un folk classico – come l’arpeggio gentile di “Another Time” mostra inequivocabilmente – che ricorda da vicino più che l’epica messianica di Dylan il sommesso sussurrare di un Leonard Cohen, il cui esordio seguirà di un anno questo lavoro capitale. La strumentazione mostra una ricerca per le diverse espressioni popolari della musica, passando dal banjo – tipico del cajun e della musica latina – all’arpa, dal mandolino – strumento mediterraneo per antonomasia – al vibrafono, dal corno inglese alla celeste.
Un ritmo più trascinante si nota in “Playmate”, brano dove forse si fa più palese l’apprezzamento per la tanto discussa svolta sonora che Dylan impresse alla sua musica (e all’intera cultura folk) nel 1965, mentre “Ballad to an Amber Lady” riporta all’epoca dei trovatori e dei trovieri, vellutata melodia – come di velluto è l’arpsichord suonato dalla “signora d’ambra” – sulla quale rintoccano tintinnii delicati. Nella breve “(Oh Dear) Miss Morse” si fa strada una psichedelia sotterranea e il folk diventa leggermente più acido; l’acidità esploderà nel basso corposo della drogata “Uncle John” e nella parte centrale di “I Shall not Care”, lesta a passare dal folk a nebulose e angosciose ipotesi orientaleggianti.
Anche se i pezzi da novanta restano la straordinaria “Morning Song”, divisa tra i ritmi circensi della batteria, la visionarietà dell’organo, gli accenni esotici del sarangi e l’andatura sognante della voce di Rapp che declama “Along the Cold and Gross Canal the Grey-walled Dwarf Leaps High Dwelling Dark-Victorious Silent/ with a Cry”, e la conclusiva “The Surrealist Waltz” nella quale l’etica musicale è enunciata fin troppo chiaramente nel titolo; un balletto surreale di rara portata, nel quale gli strumenti classici arrivano a veder trasfigurato il proprio significato e la grandezza poetica di Rapp deflagra in tutta la sua genialità.
Se la struttura sonora dei Pearls Before Swine mostra una ricerca originale e una particolare ampiezza di vedute è nella modulazione della voce che si evince definitivamente l’importanza storica della band: un cantato sommesso, timido, sussurrato, ben diverso dalla declamazione popolare che fino ad allora aveva contraddistinto il rock e tutto ciò che gli gravitava intorno. La musica si riappropria, anche grazie ai Pearls Before Swine, di un’intimità che sembrava essere andata completamente perduta. E l’Acid Folk, moda di fine decennio, raggiunge uno dei suoi massimi picchi espressivi.