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La leggerezza è la sensazione finale che lascia questa ultima prova del duo formato da Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel. Leggerezza connaturata al progetto Air a partire dalla denominazione stessa, potremmo aggiungere.
Era leggero ed etereo (e malgrado ciò sensualissimo) quel “Moon Safari” che, ben lungi dall’essere un disco d’avanguardia è diventato ormai un “must” d’ascolto-arredamento per i wine-bar più raffinati. Era a suo modo leggero anche “10.000 Hz Legend”, malgrado una veste esteriore più cupa, più tendente alla sperimentazione, più “mentale” rispetto al famoso predecessore. Bene, erano due leggeri, ma grandissimi dischi.
E questo “Talkie Walkie”? Che dire di un’opera che si presenta così nel 2004, in un’epoca difficile quanto mai, dove sembra quasi naturale richiedere all’arte e dunque anche alla musica pop-rock, se non di essere “impegnata” tout court, almeno di rappresentare in qualche modo l’estrema confusione, la paura e il disagio dei nostri tempi? Che dire di un disco la cui prima traccia – “Venus” – è paradigmatica di una banalità dei contenuti letterari (Tu potresti venire da Venere/ Io potrei essere di Marte/ Staremmo insieme/ Amanti per sempre/) che caratterizza l’intero album?
“Cherry Blossom Girl” potrebbe sembrare allora il punto più basso di tale deprecabile tendenza al disimpegno assoluto. Si ascolta spesso alla radio, segno inequivocabile di popolarità, che spesso, sappiamo, fa rima con banalità. Sarà probabilmente la colonna sonora di tanti nuovi giovani amori, con quel dolce arpeggio ripetuto, le vocine accattivanti e quel flauto tenero e poetico. Bene, al recensore romanticone questa canzone piace.
Se volessimo tuttavia provare a prescindere dalle precedenti osservazioni, che implicano un giudizio su una precisa scelta estetica dei musicisti, potremmo renderci probabilmente conto di trovarci davanti ad un altro bel disco degli Air. Un conto è la scelta estetica cui accennavamo, un’altro è la riuscita del progetto. “Talkie Walkie” è un disco realizzato col cesello. Artigianato fine, che presuppone una dimestichezza con la materia musicale non comune. Le parole, pur banali, se vogliamo, dei due brani citati sono accompagnati da una musica finemente lavorata. Il pianoforte essenziale di “Venus” (Cosa ricorda? Un preludio di Debussy – quello dei due passi sulla neve – o “Music for film” di Eno?) si apre deliziosamente in un paesaggio elettronicamente malinconico.
L’elettronica di questi ultimi Air si accompagna all’uso di strumenti acustici in maniera mirabile, in un equilibrio che serve a garantire il raggiungimento dello scopo per i musicisti e l’ascoltatore: la leggerezza, da intendere finalmente in una accezione positiva. “Mike Mills” è un altro esempio di lavoro artigianale, in cui la tastiera, su un esile sottofondo ritmico (prego di ascoltare in cuffia l’esemplare apporto della chitarra acustica) intona una progressione di note che ricordano i Genesis di “Firth of Fifth”; ove tuttavia quest’ultimo sarebbe un grandioso affresco, gli Air intendono solo regalarci un soave paesaggio in acquerello. “Run” potrebbe essere una delle canzoni preferite da parte di chi non apprezzerà quasi per nulla il resto dell’album, avendo l’apparenza di un pezzo più “consistente”. “Another Day” è il brano più vicino a “10.000 Hz Legend” nell’impostazione ritmica, armonica e vocale. Anche questo potrebbe sfuggire all’etichetta di “leggero”, probabilmente.
Una traccia a parere di chi scrive un po’ noiosa sembrerebbe probabilmente l’ultima, “Alone in Kyoto”, in cui un certo esotismo orientale un po’ da cartolina risulta abbastanza stucchevole. Sarebbe così, in effetti, senonché allo scoccare del minuto 3.30 il medesimo pezzo si trasforma per una quarantina di secondi in una bellissima serie di accordi alla Debussy che lasciano il posto al suono del mare e alla netta sensazione di aver ascoltato un bellissimo disco che verrà egualmente avversato e amato, probabilmente troppo semplice per essere veramente capito.