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Il sesto lavoro in studio dei gemelli Pace e di Kazu Makino andrà in contro, ne sono praticamente certo, ad un massacro critico. Per varie ragioni, non sempre conciliabili fra loro: innanzitutto questo “Misery is a Butterfly” fa deflagrare definitivamente le intuizioni melodiche già presenti in germe nel precedente “Melody of Certain Damaged Lemons”. Viene staccato il cordone ombelicale che ancora legava parte dell’avventura Blonde Redhead al ventre materno/noise, quello della Smell Like Records capitanata da Steve Shelley dei Sonic Youth. La band esce anche dal connubio con la Touch & Go per approdare alla corte della 4AD i Iwo Watts: nel bilanciamento dei suoni questo cambio non è certo da poco eppure, come apparente incoerenza, la produzione è sempre affidata a Guy Picciotto dei Fugazi.
Sono passati quattro anni dal licenziamento dell’ultimo lavoro, e i Blonde Redhead non sono più un gruppo di nicchia; l’addio all’indipendenza come scelta autoriale sembra affidato al carezzevole incedere di “Elephant Woman”, il brano che apre “Misery is a Butterfly” sospeso tra arpeggi delicati, un’incessante sezione ritmica tribale, una sezione d’archi ipertrofica e mastodontica (nella quale si nota lo splendido violoncello di Jane Scarpantoni, già ammirata dal vivo nell’ultimo tour di Lou Reed) e la voce carica di pathos di Kazu Makino. Può essere facile storcere il naso e disconoscere il brano, ma chi ha capito il percorso compiuto in dieci anni dalla band riconoscerà il volto dei Blonde Redhead: dietro questo muro di sovraincisioni si possono ritrovare le tonalità tipiche di Amedeo Pace, le progressioni di accordi, i timbri e l’uso del tutto personale dei crescendo. Se è vero che il suono si è addolcito l’essenza è rimasta la stessa, e nei brani si respira una splendida aria di decadenza parigina. Dopotutto me lo aveva confidato lo stesso Amedeo meno di un anno fa (vedi intervista), quest’album avrebbe avvicinato ancora di più il mondo dei tre alle composizioni di Serge Gainsbourg.
Un pop dimesso con improvvise soluzioni ritmiche avvolgenti e reiterate, come in “Messenger” o in “Melody” dove la delicatezza depressa del clavinet si scontra con l’irruenza meccanica della batteria di Simone Pace e la profondità della chitarra baritono di Amedeo, producendo un’atmosfera dimessa e al contempo stressata. Questa sorta di ossimoro sembra essere il carattere peculiare dell’album, come nella successiva “Doll is Mine” dove per descrivere il più classico dei ritmi si fa ricorso alla più frastagliata delle chitarre. La band sembra voler rimarcare il fatto che due mondi sono sempre stati presenti e vivi nei suoi lavori, e la scommessa è riuscire a farli convivere senza squilibri. Così, se la title-track è la quintessenza per quanto riguarda l’uso degli archi, “Falling Man” riporta direttamente ai tempi della Touch & Go con improvviso vuoto cosmico nel mezzo, spiazzante frammento sognante, prima dell’irrompere della strofa. In “Anticipation” si fa notare l’influenza del cambio di etichetta: i suoni riportano alla mente i “Cocteau Twins” e alcune intuizioni dei Dead Can Dance, gruppi di punta della 4AD durante gli anni ’80. “Maddening Cloud” è forse la creatura più spiazzante dell’intero album: sembra quasi di ascoltare una cover band dei Beatles che suona una canzone scritta da Amedeo Pace.
Uno dei momenti più alti dell’album arriva ad essere la ninna nanna per clavinet, chitarra, percussioni e voce di “Magic Mountain”: riverberi, echi e rumori trasportano il tutto in un’atmosfera onirica e vagamene inquietante. “Pink Love” non aggiunge molto a quanto già detto, mentre “Equus” è quanto di più vicino alla new wave che la band abbia mai prodotto. La voce di Kazu torna a toccare corde ben più aspre e agitate che ne resto dell’album, si fa strada un basso corposo (suonato da Skuli Sverrisson) mentre nel ritornello il ritmo si fa decisamente sincopato, energico. Una sferzata finale che rende ancora più ammaliante questo lavoro.
Probabilmente i Blonde Redhead non hanno ancora raggiunto completamente il mondo musicale che intendono presentare e non mi stupirebbe, in futuro, incontrare suoni ancora più vellutati e veder abbandonare qualsiasi componente ansiogena, ma sicuramente è impossibile imbattersi attualmente in qualcosa che gli somigli. Continuano ad andare avanti per la loro strada, senza farsi particolari problemi: chi concepirà questo lavoro come un compromesso commerciale dimostrerà di non aver mai compreso l’essenza del suono della band italo/nippo/statunitense. Non c’è nulla di newyorchese in giro che risulti essere così poco newyorchese, non c’è nulla di pop che risulti essere così frastagliato, non c’è nulla di indie-rock che risulti essere così melodico. Provare (e ammirare) per credere.
85/100
(Raffaele Meale)
30 marzo 2004