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Senza dubbio tra le migliori bands americane di rock, gli Spirit si formano a Los Angeles nel 1967. I componenti portano in dote una grande etereogenità di stili: il batterista Ed Cassidy e il tastierista John Locke (che si proclama discendente dell’omonimo filosofo inglese…) possiedono un forte background jazz, mentre il vocalist Jay Ferguson ed il bassista Mark Andes provengono da esperienze bluegrass. Al quartetto presto si aggiunge Randy California, sedicenne chitarrista solista già apparso sul palco al fianco dell’Hendrix pre-Inghilterra. Curiosità aggiuntiva: Randy è il figlioccio di Cassidy, il quale ne sposerà la madre.
Ad inizio ’67 gli Spirit hanno ormai una buona reputazione live: all’Ash Grove di L.A. vengono notati da Lou Adler, famoso produttore che decide di ingaggiarli per la neonata ODE Records. L’esordio è semplicemente col botto: in massima parte scritto da Jay Ferguson, “Spirit” rivela un suono assolutamente originale, una deliziosa, squisita fusione di pop visionario, lontani rimandi folk e sapienza jazz. Alcuni brani sono memorabili, cominciando dalla canzone d’apertura, “Fresh garbage”, una vera e propria protesta ecologista in un vestito psycho-funky blues con merletti jazzy. “Mechanical world” è un altro capolavoro, complessa, in bilico tra accelerazioni e decelerazioni, con un sapiente dialogo tra fiati, archi e l’aggressiva chitarra solista di California. L’arpeggio iniziale di “Taurus” fa sobbalzare, essendo la copia quasi originale di quello della ben più famosa e posteriore “Stairway to heaven” zeppeliniana: ad alimentare un discreto sospetto di plagio o di eccessiva ispirazione si segnala una tournée americana degli ancora sconosciuti Page e Plant come spalla del quintetto statunitense, proprio nel 1968…
Ma intanto, dopo quella che potremmo innocentemente chiamare “Stairway to Taurus”, si continua a collezionare autentiche perle. “Girl in your eye” è eccezionale nel suo andamento strascicato e indolente: il sitar in primo piano inclina dolcemente l’atmosfera, evocando paradisi artificiali decisamente allettanti. “Straight arrow”, tesa e sincopata, di assoluta nettezza e morbidezza esecutiva nelle parti basso-chitarra, precede un altro grandissimo capolavoro dell’album, “Topanga windows”, dove viene descritto il paesaggio in cui gli Spirit avevano formato una famiglia-comune, nell’entroterra hollywoodiano. Canzone pop rock per eccellenza ed acclamazione, “Topanga windows” è la consolante dimostrazione di quali genialità sia capace il genere umano.
A questo punto l’opera soffre di una leggera flessione compositiva, pur mantenendosi a livelli eccelsi soprattutto con la grintosa e vagamente liquida “Gramophone man” e con la concettuale “Elijah”, forse un po’ troppo lunga ed espansa, comunque utile nel dimostrare la bravura e la sensibilità tecnica della band californiana. Nella versione cd si trovano alcune bonus e alternative tracks che nulla aggiungono all’originaria qualità di un esordio tra i più importanti di quel tempo, tempo in cui la musica giovane, ricordiamolo, era assai vicina al suo zenit.