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Tre voci, una chitarra, un basso, tastiere campionate, una drum machine: basta questo per comporre un album all’alba del terzo millennio. O quantomeno basta ai Surgery, band romana che esordisce nel 2003 con un album fieramente autoprodotto: una voce effettata che elenca a raffica nomi e ideologie in uno spaccato della vita moderna, della società contemporanea e delle sue innumerevoli contraddizioni (“Satan Hitler Madonna Michael Jackson” e ancora “Abomination Solitude War for Gasoline Tv Domination Modern Democratic Holocaust Ground Zero”) è il biglietto da visita di “Nitro”, intro robotico e disumanizzato.
In “Blood Returns” si affacciano chiaramente i riferimenti musicali della band: industrial, digital hardcore, dark e post-punk mescolati senza soluzione di continuità. La voce di Daniele Coccia passa da toni catacombali a urla rabbiose e disperate, il basso di Matteo Ribichini (anche curatore dei vari campionamenti) è corposo e ben si sposa con la chitarra ora frastagliata ora acida di Dario Casadei. La danza conturbante di “Mimic Mania” riconduce, a causa anche della voce femminile – interessanti le tonalità usate da Flavia Giamarone e Cristina Badaracco – alle ipotesi dance presentate dai Blonde Redhead in “Melody of Certain Damaged Lemons” (e anche il cantato in inglese e francese riporta alla mente l’esperienza della band newyorchese). Assai particolare la scelta della cover: in “Morte di Gesù” la band affronta un cavallo di battaglia del Canzoniere del Lazio, trasformandolo in una marcetta fredda e tecnocratica spezzata da sussurri che ben poco hanno di consolante.
Non tutto suona particolarmente originale o ben riuscito: un brano come “Fuck Em All” sembra non essere sfruttato completamente – e infatti dal vivo la resa è assai superiore -. Ma nel complesso l’album suona seducentemente bene, dalle reminiscenze anni ’80 di “Stupida estate” e “Lovebyte” – deliziose digressioni di puro synth-pop – all’ossessività di “Alien Surgery”, dalla psichedelia orientaleggiante pronta a deflagrare di “Border Line” al faccia a faccia snervante fra riffs e drum machine di “Experimental Surgery”, per arrivare a “Love is Suicide” nel quale convivono i Suicide (nelle reiterazioni d’apertura), i Nine Inch Nails e Hanin Elias – con i dovuti distinguo, sia chiaro -.
Cinque ragazzi da tenere decisamente d’occhio, ancora non completamente in grado di gestire tutti gli elementi e le derivazioni musicali, ma che sembrano promettere un futuro assai interessante: una sorta di crasi fra la furia degli Atari Teenage Riot e l’essenzialità strumentale dei CCCP – l’aspetto teatrale della musica e l’uso della drum machine richiamano fortemente all’esperienza di Ferretti e Zamboni -. Una scoperta inaspettata e sorprendente, in un panorama italiano che rischia di fossilizzarsi sulla crescente moda post-rock – che nel resto del mondo sta svanendo completamente -, vedi epigoni dei vari Three Second Kiss e Giardini di Mirò. Una sfida lanciata, nella speranza che i Surgery non si accontentino dei nomi usati a paragone e proseguano fieramente per la propria strada.