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La grandezza di un autore come David Bowie è sempre stata associata alla sua notevole capacità di rigenerarsi, di ri-creare di continuo la sua immagine senza mai dare l’impressione di essersi perso.
Uomo di teatro prima ancora che musicista, probabilmente, capace di (ri)mettersi in scena con cadenze regolari, in un gioco di immedesimazione nei personaggi creati che ha spesso colto di sorpresa il suo stesso uditorio – c’è ancora chi identifica Bowie nello Ziggy Stardust costretto al suicidio dopo aver attraversato tutte le logiche del successo, morale/fisico/economico -. A tratti addirittura capace di coniugare in sé derivazioni artistiche quasi antitetiche (nel giro di due anni dalla collaborazione con i Queen all’austero set sul quale Nagisa Oshima tracciò il suo capolavoro “Furyo”), uomo/ossimoro capace di fare dell’arte un commercio e allo stesso tempo del commercio un’arte, capace di appiattire l’avanguardia sulle regole del mercato e di trasformare le regole del mercato in un veicolo per l’avanguardia – in questo estremo esempio di pop art -.
Eppure, da un paio di opere a questa parte sembra quasi che il giocattolo si sia inesorabilmente disintegrato; prima è arrivato il cedevole “Heathen”, fragile e disadorno – o troppo carico? – indeciso e frammentato, quasi intimidito dalla propria esistenza, e ora è la volta di “Reality”, suo fratello minore. Perché tutto quello che di malsano si respirava in “Heathen” esplode qui in maniera inconfutabile. Come non provare un senso di irrequietezza nell’ascoltare la cadenza regolare e ovvia di “New Killer Star” e associarla al passato – anche piuttosto recente – della carriera di Bowie? E’ vero che il Duca Bianco cerca di mescolare l’idea della reiterazione che era alla base di “Heroes” e del periodo berlinese con l’irruzione di ritornelli orecchiabili ed epici dal sapore decisamente glam, ma tutto risulta artefatto, stanco, assolutamente privo di guizzi.
Resta l’occasione per divertirsi a rifare tutte le canzoni del cuore – l’anno scorso era stata la volta di “Cactus” dei Pixies -, provando a stravolgerle. Peccato che la sua versione di “Pablo Picasso”, classico dei Modern Lovers di Richman, ipervitaminizzata e coperta di riverberi e circolarità arabeggianti non valga un millesimo dell’originale. Qualcosa di migliore lo si respira nella decadenza pianistica di “The Loneliest Guy”, attraversata e sezionata da una chitarra spaziale, dove la voce di Bowie ritrova un pathos che sembrava realmente irrimediabilmente perduto.
Per il resto c’è veramente poco da annotare, tra armoniche dylaniate che si sposano a melodie sempre troppo dannatamente logiche e nelle quali si può solo riconoscere la straordinaria capacità di arrangiamento dell’autore – valga per tutte la leggera e così desolatamente banale struttura di “She’ll Drive the Big Car” – e frammenti di George Harrison che irrompono nella rilettura di “Try Some, Buy Some”, commovente e populista come la maggior parte delle composizioni soliste dello scomparso ex-Beatle eppure (o dunque?) capace di trascinare via e rapire più del resto dell’album. “Bring Me the Disco King” risulterebbe essere la miglior canzone del lotto se non fosse per quella sensazione fin troppo palese di costruzione a tavolino: in fin dei conti Bowie sembra dare solo ed esclusivamente quello che ci si aspetta da lui, e il pezzo che chiude l’album non è niente di più di un Bowie che rilegge Bowie strillando ai quattro venti “sto rileggendo Bowie! Sto rileggendo Bowie!”.
E allora, se il gioco diventa troppo scoperto, sopravviene immediatamente la noia. E se questa è la realtà che voleva proporci quest’uomo geniale, allora forse è davvero il momento di preoccuparsi. C’è sempre speranza nel futuro…forse.