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Il Lower East Side fu, per la New York degli anni ’60, l’Inferno e il Paradiso: per quelle vie si agitavano freaks, drogati, folli colti da allucinazioni mistiche, dissidenti politici. Tra questi residui di una società fagocitante trovarono sbocco naturale le ramificazioni della scena underground che era sorta ai piedi dell’avanguardia pop, spirito/Warhol e carne/Morrissey riuniti insieme.
Nel Lower East Side crebbe quel Jim Carroll che si divertiva ad annotare le sue giornate su un diario dando così vita a quei “Basketball Diaries” che sono tutt’oggi una delle più sorprendenti e miracolose ipotesi letterarie del secondo dopoguerra statunitense. Un nuovo mondo artistico stava bussando alle porte e il precedente si eclissava poco alla volta: ad appena due anni di differenza muoiono Jack Kerouac e Neal Cassidy, simbolo del vagabondare on the road al di fuori di qualsiasi schematismo sociale gerarchico, mentre Bob Dylan passa dalle invettive politiche a storie d’amore country e pop (“Lay Lady Lay” su tutte). Una mattina un gruppo di persone del Lower East Side vanno a protestare davanti a casa di Dylan, definendolo un traditore e cercando nei rifiuti palesamenti della sua accettazione borghese della vita.
A capo di questo gruppo di invasati pazzoidi c’è David Peel, giovane cantastorie che ama circondarsi di barboni e che canta tutto quello che l’America ha paura di ascoltare. Nel 1968 viene alla luce questo “Have a Marijuana”, registrato per strada, in presa diretta, e destinato a diventare un album a suo modo “maledetto”. “Mother Where is My Father?” si apre con urla inconsulte per poi precipitare in una dimessa progressione folk, con sonagli e bonghetti che si accompagnano alla chitarra e la voce sgraziata di David Peel che irrompe carica di ironia e rabbia. Sembra quasi di ascoltare una versione scarna, improvvisata e assolutamente priva di tecnica della lezione postmoderna che Frank Zappa sta iniziando a divulgare nel mondo.
Un pezzo come “I Like Marijuana”, basato su un vero e proprio delirante comizio di Peel davanti alla sua “corte dei miracoli” (che ulula e applaude alle frasi del suo vate), sarebbe la coda perfetta alle digressioni agit-prop dei Fugs di Ed Sanders e Tuli Kupferberg se non fosse per quella tangibile sensazione di immediatezza. Non c’è nulla di pensato a priori o di costruito nella musica di Peel che ondeggia da ripassi di ritmi appalacchiani a percussioni afro fino a strutture che riprendono la base del blues. E in questa ubriaca e straccata visione della musica, urlata e strascicata, non può non apparire il volto della destrutturazione dell’idea di inno cara alla generazione punk (basta prendere un brano come “Here Comes a Cop” e attaccare la chitarra agli amplificatori per trovarsi davanti ad un brano del 1977).
Eppure probabilmente l’idea era quella di riprendere e attualizzare l’armonica e chitarra che fece la fortuna dell’amato/odiato Dylan, ma anche di altri simboli dell’elegia folk come Woody Guthrie o Joe Hill. Una cosa è certa: “Happy Mother Day” non avrebbe sfigurato assolutamente in “London Calling” dei Clash. Il folk parlato fa capolino in “I Do My Bawling in the Bathroom”, mentre il punto più alto dell’album risulta essere probabilmente “Alphabet Song”, straordinaria mistura di polka, disadattata voce salmodiante, coretti ossessivi e testo che mescola dadaismo, nenia infantile e surrealismo. Questo delirio mentale, formale e musicale si chiude sull’acclamazione finale di “We Love You”, deformazione dei canti sacri e al contempo elevazione a mito dell’idea estremizzata di coralità.
Bisognerebbe forse cercare di capire quanta consapevolezza ci fosse alla base del progetto…o forse no. In fin dei conti quello che resta è una delle più convincenti ed estreme dimostrazioni di anarchia concettuale e di rigetto della società occidentale in ogni sua forma – album che nega l’idea stessa di gruppo e di singolo, e che non ha alcuna pretesa commerciale (tanto da finire ben presto nel dimenticatoio) – come sintetizza angelicamente il titolo. Mentre il sistema statunitense pone sul denaro buona parte del suo American Dream David Peel afferma semplicemente “Have a Marijuana”. E buona pace ai benpensanti.