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Il suono elettrico e il look indie-casual sono durati lo spazio di un album – “Regeneration” – peraltro bellissimo. L’ego ipertrofico di Neil Hannon ha ripreso il sopravvento, facendogli rivestire gli amati panni di inguaribile dandy. La vita tipica da rockstar con gruppo fisso al seguito è parsa in fretta noiosa e avvilente agli occhi di un purosangue abituato ad un’ispirazione musicale talmente diversificata da permettergli di spaziare con somma nonchalance da Noel Coward ai Roxy Music.
Già alla fine del 2002 Hannon ordina il rompete le righe ai compagni del “Regeneration Tour”, imbarcandosi da lì a poco in un act acustico che parte dall’Inghilterra e finisce al di là dell’Atlantico, nella mai esplorata America. Le date britanniche sono aperte dall’illustre ospite Ben Folds, il quale offrirà a Neil di scambiare i ruoli negli States. Da questa inedita esperienza on the road e dalla contemporanea nascita della figlia Willow nascono nuove esigenze compositive che portano l’irlandese dell’Ulster a frequentare i famosi Abbey Road e Konk Studios per tutto il 2003.
Il risultato di tale fermento creativo che ci distende l’apparato uditivo si chiama “Absent friends”, è formato da undici canzoni tra loro legate da un mood dominante di classe, profondità, cultura e leggerezza, un capolavoro di follia misurata, un instant classic.
“Absent friends” è figlio delle carambole emozionali contenute in album essenziali quali “Casanova” e “Fin de siècle”, innestate nella essenzialità più cruda del penultimo “Regeneration”: molte delle undici tracce sono unicamente formate dal binomio voce-orchestra, dove vecchi e peraltro carissimi eccessi filo-brechtiani si sono prosciugati in un difficilmente definibile mainstream pop di inafferrabile pregnanza, un suono e una voce che paiono appartenere alternativamente a Frank Sinatra, Paul McCartney, Scott Walker, Brian Wilson, per toccare il Bowie più dark e impalpabili rarefazioni primi This Mortal Coil.
Prendiamo “Leaving today”: è un diamante di purezza inestimabile, canzone lenta, sospesa a un filo, canzone che pare una lunga attesa dietro la quale si nasconde un presagio, suggestioni dark a passeggio con una pura classicità pop alla Sinatra. La lievità di “My imaginary friend” sembra scaturire dalla penna del miglior McCartney, mentre la title track e “Sticks & stones” non fanno che confermare l’enorme impatto cinematico della musica dei Divine Comedy: peraltro proprio in “Sticks & stones” troviamo il grande Yann Tiersen alla fisarmonica, musicista francese dall’approccio cinematografico ormai acclarato. Capolavoro assoluto in linea con questa “music for imaginary films” è la nymaniana e dickensiana (nel titolo) “Our mutual friend”, tesa, circolare ed infine struggente, con un’entrata finale vento in poppa dell’orchestra che sembra un inno all’inevitabile, alla potenza del fato e a quella dell’uomo che non vuole mai abbandonarsi ad esso.
Abbiamo accennato al tour statunitense. Ebbene, troviamo vistose tracce di quell’esperienza in “Absent friends”, soprattutto nelle curiose ed azzeccate intrusioni di un banjo e nella forma tipicamente blues di “Freedom road”, scarnificata e desertica, almeno fino all’insolita entrata di un clavicembalo, geniale inserimento “altro” che vale più di ogni perorazione al meticciato. Il mito della cagnetta Laika viene trasfigurato in un emozionante momento strumentale (“Laika’s theme”) che precede la straordinaria chiusura del lavoro, “Charmed life”, canzone che raccoglie in pochi minuti vaudeville, ragtime, Bacharach, Glenn Miller, Jarre, Beatles e, soprattutto, Neil Hannon, personalità eccentrica, enciclopedica, amante di vecchi varietà e della varietà di espressione, terrorizzata dal banale, ormai degna di essere avvicinata a chi tanto lo ha ispirato e spinto ad essere sé stesso.