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Un battito sintetico profondo. Colpi di tosse. Una voce (quella voce) che prende fiato. Una sigaretta che si accende. La voce inizia, ossessiva, scura, profonda: “Tutto ciò che separa è santo”. Una suite postmoderna, “Santo”, che insegue man mano ritmi diversi e poco a poco si apre, finendo in territori simili a quelli dei primi UNKLE: è il modo in cui Emidio Clementi inizia la nuova avventura, dopo aver innervato di letteratura ed evocazioni lo scorso decennio del rock italiano con i suoi Massimo Volume.
Non è cambiato molto: le sue parole rimangono sempre al centro delle canzoni, procedono a scatti, come per fotografare le proprie sensazioni cogliendo l’ambiente esterno; cambia il vestito, ora elettronico (le chitarre, qui suonate da Dario Parisini -chi ricorda i Disciplinatha?-, affiorano qua e là, spesso tentate da seduzioni blues), ma non la sostanza. Le canzoni sono attraversate da presenze che non vogliono svelarsi, da voci, da incontri e sfioramenti forse inutili o forse eterni (“Shalimar hotel”).
La storia è breve: tre persone partono per Tangeri su un autobus, decisi a registrare in una stanza d’albergo, coglierne gli umori. Qualcosa non funziona come avrebbe dovuto, e l’equilibrio si spezza. Purtroppo questa è la stessa cosa che succede al disco; se tutto fosse al livello dell’iniziale “Santo” l’esordio degli El~Muniria sarebbe un capolavoro, ma dalla metà in poi le canzoni si affaticano, i testi prendono strade che Clementi ha già frequentato (con i Massimo Volume e come scrittore), le musiche tendono ad assomigliarsi tutte e, peggio ancora, sembra affiorare una brutta bestia: l’autocompiacimento.
E dire che all’inizio il disco non era affatto male: “Stanza 218” è capace di farti sentire fisicamente il senso dell’attesa, il caldo opprimente, la sensazione di solitudine; “Fermati qui” tenta strade trip-hop; “Fino in fondo”, nonostante un timido tentativo di cantato, è evocativa come le pagine migliori dei Massimo Volume. E allora, cos’è che si è spezzato?